Sul collegamento Calabria-Sicilia ci sono problemi di ingegneria, finanza e tenuta giuridica del decreto. Ma il vicepremier lo vuole a ogni costo, come i governatori Schifani e Occhiuto. Meloni, invece, tentenna. E Mattarella è preoccupato

Una strana forma di euforia accomuna i due partiti del Ponte. I favorevoli, guidati dal ministro e leader leghista Matteo Salvini, esultano per il rilancio del progetto che unirà la Sicilia al continente ed elencano i benefici strabilianti di un’opera che per adesso presenta qualche criticità. In sintesi, non si sa se è realizzabile, non si sa quanto costa rispetto agli 8,5 miliardi delle ultime stime, non ha studi recenti sui flussi di traffico e non tiene in considerazione l’impoverimento demografico costante di tutta l’area, abitata da 800 mila persone e intasata dai turisti agli imbarchi per un paio di settimane all’anno.

I contrari sono addirittura ilari di fronte all’infattibilità tecnica e finanziaria di un’opera che, a loro modo di vedere, è soltanto una spacconata propagandistica, per di più vista con sospetto dalla donna sola al comando, Giorgia Meloni, presa da ben altri problemi. Per esempio, dalla verifica europea sugli obiettivi del Pnrr prevista il prossimo 30 giugno.

Indubbiamente gli aspetti umoristici abbondano nell’ennesima risurrezione pontificia. A cominciare dalla bozza di decreto presentata il 16 marzo in consiglio dei ministri dal vicepresidente Salvini, titolare del ministero delle infrastrutture, e approvata con la dicitura “salvo intese”. Sono due parole che spalancano abissi giuridici e includono la riesumazione di contratti sciolti, forse con la dicitura “abbiamo scherzato”.

Il reparto fake news è particolarmente spassoso. Salvini parla di un beneficio economico di 5-6 miliardi all’anno per la sola Sicilia. Sui benefici per la Calabria ci sta ancora pensando ma si può ben sperare. Il ministro delle imprese e del made in Italy Adolfo Urso ha dichiarato che «il ponte significa in qualche misura anche la rinascita della siderurgia e dell’acciaieria italiana», come se l’esecutivo potesse imporre al general contractor Eurolink prodotti più cari e spesso meno efficienti di quelli disponibili sul mercato internazionale.

In tutta la vicenda chi non si sta divertendo è il presidente Sergio Mattarella, che tiene sotto stretta osservanza il decreto, consapevole dei rischi di contenzioso. Sul resto, il presidente può fare poco. Ormai vale il principio che ogni ministro ha diritto a una quota di debito pubblico prossimo venturo. Solo per riavviare la macchina societaria della Stretto di Messina spa (Sdm), messa in liquidazione dieci anni fa nelle mani di Vincenzo Fortunato, e per abbozzare un progetto esecutivo si spenderanno decine di milioni. Ma si creeranno opportunità di nuove nomine.

Gli atti aggiuntivi alla convenzione stipulata nel1971, oltre mezzo secolo fa, metteranno la Sdm sotto il controllo diretto del Tesoro con un nuovo cda a cinque. Il Ministero dell’economia (Mef) nominerà il presidente e l’amministratore delegato. Il tandem Rfi-Anas avrà diritto a una poltrona e le altre due andranno alle regioni guidate da Roberto Occhiuto (Calabria) e Renato Schifani (Sicilia).

 

Il tutto avverrà a valle delle nomine in scadenza nel gruppo Fs, con Salvini che vorrebbe mandare alla guida di Rfi l’attuale ad di Trenitalia, Luigi Corradi. E possibilmente liberare anche la casella dell’Anas piazzando l’ad Aldo Isi come commissario straordinario della riesumanda Sdm.

Gli stipendi saranno di tutto riguardo visto che sono sottratti alle norme sul tetto dei 240 mila euro l’anno per i manager pubblici. L’unica voce non a carico del contribuente è quella del comitato scientifico. I nove esperti che dovrebbero consigliare il general contractor Eurolink e mantenerlo sulla retta via saranno pagati dalla stessa Eurolink, tuttora in causa con lo Stato dopo avere perso il processo di primo grado sui risarcimenti per la bocciatura pre-salviniana del ponte.

Sulla rinascita dell’opera il principale azionista di Eurolink, Pietro Salini di Webuild, si è mostrato alquanto prudente in un’intervista recente al Corriere della sera. «Credo che più in generale si debba riparlare dei bisogni del paese senza dimenticare che il Sud è un’area dove vivono 25 milioni di italiani e che l’unico meccanismo per prendersene cura non può essere il reddito di cittadinanza».

Non bisognerebbe dimenticare nemmeno che i lavori sull’A2, l’ex Salerno-Reggio dichiarata più volte compiuta anche grazie ai lotti realizzati da Salini, sono fermi con 2 miliardi di euro da spendere. Non basteranno. Il tracciato rinnovato presenta ancora tre buchi colossali a sud di Cosenza, dove i lavori sono in corso, nella zona di Pizzo Calabro, dove bisognerebbe smantellare chilometri di viadotti per sostituirli con una galleria a prezzi molto alti. L’area più critica è proprio quella fra Reggio e Villa San Giovanni, dove dovrebbe poggiare la torre continentale. Secondo i tecnici, il livello di urbanizzazione dell’area rende di fatto impossibile una riqualificazione e sulla sponda siciliana, con Messina distante una dozzina di chilometri dalla pila del ponte, le opere di viabilità accessoria sono da incubo.

Insomma Webuild, che ha portato il suo portafoglio lavori a 12 miliardi di euro con l’acquisizione dell’australiana Clough, ha alternative più semplici nella terra dei canguri. Tecnicamente la campata unica da 3,2 chilometri con linea stradale e ferroviaria presuppone un salto tecnologico che, secondo gli esperti consultati dall’Espresso, è ancora da venire. I confronti con opere simili offerti agli entusiasti sono molto al di sotto della lunghezza dello “stendipanni” fra Scilla e Cariddi. Al momento l’unico parallelo possibile è con il terzo ponte sul Bosforo, il Yavuz Sultan Selim di Istanbul, che accoglie autoveicoli e treni ma ha una luce massima di 1408 metri, meno della metà di quanto serve per scavalcare lo Stretto.

 

Gli altri casi proposti sono il giapponese Akashi, che sfiora i due chilometri di campata principale. L’opera è stata colpita da un terremoto di scala 6,8 durante la costruzione e ha tenuto. Ma il treno, previsto nel progetto preliminare, era già stato eliminato in fase esecutiva perché la presenza della linea ferrata, per semplificare, impone alla struttura una maggiore rigidità e la rende più fragile rispetto alle sollecitazioni di vento, correnti marine ed eventi sismici.

 

Non prevedono binari neppure l’Ozmangasi sullo stretto turco di Izmit (1550 metri di campata centrale) e il Fatih Sultan Mehmet sul Bosforo (1090 metri di campata centrale) con mensole strallate simili a quelle previste per il ponte italiano.

Remo Calzona, ex consulente di palazzo Chigi e del Mit, ha inquadrato i problemi tecnologici in un saggio del 2008 (La ricerca non ha fine). Il libro indica la via per collegare la Sicilia al continente in un lungo e paziente lavoro di ricerca, invece della progettazione esecutiva a spron battuto da qui al luglio 2024 sbandierata da Salvini.

Nel marzo del 2022 Calzona è tornato sulla questione con toni più diretti a un convegno universitario a Messina: «Degli analfabeti avevano previsto il ponte sullo Stretto a unica campata».

 

Non si sa se nella categoria stigmatizzata dal professore rientri il gruppo di lavoro animato dal predecessore di Salvini, lo statistico Enrico Giovannini. Il gruppo aveva già chiuso la sua relazione nell’aprile del 2021 con una sentenza piuttosto chiara, espressa da un panel di sedici esperti composto da manager di Stato e da membri della struttura tecnica di missione del Mit. La conclusione riconosceva l’utilità del collegamento ma favoriva un progetto a campata ridotta con pilastri che affondano nelle acque profondissime dello Stretto. La proposta, che nel rapporto è definita meno costosa, più sicura e con un impatto ambientale inferiore, è considerata impraticabile da molti geologi e progettisti.

 

Il gruppo di lavoro indicava anche un fattore che il decreto salviniano, scritto sotto dettatura del capo di gabinetto Alfredo Storto, ha accolto. In sigla, sono le Ntc2018 ossia le normative tecniche per le costruzioni entrate in vigore nel gennaio di cinque anni fa. L’adeguamento a queste nuove disposizioni, che assorbono i codici europei, non è affatto a costo zero come non lo è la nuova legge sulla revisione prezzi per i lavori in corso trasformata in legge qualche mese fa e inserita nella bozza di decreto con un linguaggio esoterico al comma 6 dell’articolo 4: «L’ulteriore aggiornamento delle voci del corrispettivo a decorrere dal primo gennaio 2022 fino alla data della delibera di approvazione del progetto definitivo è effettuato sostituendo gli indici previsti dalle clausole di revisione prezzi di cui al comma 5, lettera b con la media delle variazioni percentuali del valore dei primi quattro progetti infrastrutturali banditi da Rfi o Anas nel 2022 secondo l’ordine di priorità determinato dall’importo a base di gara. La variazione percentuale del valore dei predetti progetti è rappresentata dal rapporto tra il valore ottenuto applicando alle quantità previste nel progetto a base di gara le tariffe vigenti alla data della delibera di approvazione del progetto definitivo».

 

In parole più chiare, l’aumento dei costi è inevitabile e bastano pochi decimi di punto quando gli ordini di grandezza sono di circa centomila tonnellate di acciaio per le due torri, di oltre cinquantamila tonnellate per l’impalcato e i cavi richiedono materiali di altissima qualità.

 

Oltre a impiombare i conti pubblici, il ponte avrebbe l’effetto aggiuntivo di affossare il traffico marittimo che serve il porto di Gioia Tauro, come ha indicato il presidente di Federlogistica Luigi Merlo. Le grandi navi da crociera e da carico hanno altezze che ormai sfiorano gli 80 metri e rischierebbero di incastrarsi sotto l’impalcato a quota 65 metri con danni enormi. Con queste premesse il rischio è sempre quello di mezzo secolo fa: tanto rumore per bruciare altro denaro pubblico.