A Roma è nato Priot, un’alternativa alle manifestazioni di giugno che coordina soggettività queer e transfemministe. Una lotta antirazzista, ecologista, antifascista. Che sia rivolta quotidiana e superi il “washing” fondato sull’idea dell’«accettateci, siamo come voi»

Il 1° giugno una rivolta transfemminista queer ha attraversato le strade del quartiere romano di Centocelle. Si tratta del Priot pride, il primo pride anticapitalista e autorganizzato in città. Siamo entrati infatti nel mese del Pride, dicitura già di per sé stridente e faticosa, come se il Pride fosse una festa a tema, momentanea e permessa entro limiti e non un percorso politico giornaliero.

A febbraio 2023, lontano dall’ordine decoroso e costituito, Priot, il “Pride Romano Indecoroso Oltre Tutto”, è nato in un gran chiasso con lo scopo di coordinare soggettività queer e transfemministe del panorama romano. Nelle parole del coordinamento: «Priot nasce per desiderio e per rabbia». Mossi dal bisogno di costruire un Pride dal basso, radicale e transfemminista, Priot rivendica lo stare dentro una lotta che sia al contempo antirazzista, ecologista e antifascista; è un Pride che combatte al fianco di chi non ha una casa, di chi non ha lavoro o è sfruttato dal sistema capitalista, al fianco di chi è vittima di repressione politica. Priot è dunque un percorso necessario nella Capitale per chi vuole costruire percorsi di lotta ben oltre le giornate di giugno.

La liberazione queer avviene in spazi che non sono quelli del capitale e della violenza di Stato. È infatti antitetica, per storia e natura, al capitalismo e al nazionalismo. Ci sono miriadi di casi espliciti di ciò: multinazionali, come Johnson & Johnson, che nel mese del Pride si dicono vicine alla comunità LGBTQIA+, finanziando, allo stesso tempo, candidati politici che promuovono leggi contro le persone trans. Un altro esempio è il sindaco di Roma Roberto Gualtieri che ha accolto il Pride di Roma e, a distanza di qualche settimana, patrocinato gli Stati generali della natalità, iniziativa chiave della destra nazionalista, clericale, patriarcale. Per questa ragione, un percorso come quello di Priot, e quelli affini, seppur in modalità diverse, in altre città d’Italia, respinge con rabbia intransigente un capitalismo e dei rapporti con le istituzioni che vengono raccontati come ineluttabili.

Non c’è niente di naturale o inevitabile in questo presente qui: è un sistema simbolico che trae la sua efficacia dal perpetrarsi di convinzioni collettive. Le soggettività di Priot aspirano a ispirare una speranza radicale esponendo la mutevolezza di queste relazioni sociali. Mentre invece, il sistema economico e politico vigente ha trasformato le istanze della comunità LGBTQIA+ in prodotti di marketing, mercificando le sue istanze; radicali per natura. Questo meccanismo trova il suo culmine in un Pride-vetrina limitatamente rappresentativo che costringe la comunità a sfilare al fianco di brand multinazionali, polizia e Stati apartheid.

Sono dinamiche di washing, appunto di depotenziamento e diluzione, delle istanze LGBTQIA+ per renderle digeribili e normalizzate con la retorica stantia del «love is love», appunto per dire «accettateci, siamo proprio come voi». Ridiamo spesso, e con un certo fastidio, dell’esigenza di alcuni “alleati” di citare chi, nel regno animale, ha comportamenti omosessuali, con lo scopo di argomentare il fatto che l’amore queer è anch’esso naturale.

Ecco, diciamo che possiamo perseguire il rispetto e la tutela dei diritti altrui senza per forza eguagliarli a dei bonobo. Senza dover scomodare Stonewall, la storia del movimento LGBTQIA+ pretende radicalità: deve tracciare nuove forme del possibile, sennò soffoca, affinché «ogni giorno sia Pride, e il Pride sia rivolta».