Fregiandosi di una presunta superiorità morale, definisce gli “altri”. Così, un rifugiato è un privilegiato. Al contrario, il migrante economico non merita di sopravvivere

Ero in un bar in Olanda con un’amica e, parlando in inglese, mi sono riferita a me stessa come a una persona che è stata migrante per un po’. Lei subito mi ha corretta e mi ha detto: «You’re an expat, not a migrant», ovvero: sei un’espatriata, non una migrante. In inglese è sicuramente meno sottile la linea, di classe, che si traccia tra chi migra mosso da privilegio e chi no. Conoscevo già la differenza, in inglese, tra «expat» e «migrant», ma credo sia essenziale creare quel piccolo fastidio in chi ci ascolta: una persona con il privilegio del passaporto europeo che si definisce «migrant».

 

Quella leggera dissonanza cognitiva allena l’interlocutore a decostruire il proprio bias su chi merita di migrare e chi no. Si punta il dito contro i malpensanti che stimolano una riflessione tra dei milionari che implodono in un sottomarino tra le rovine del Titanic e della gente comune che attraversa il Mediterraneo. Si crede infatti di avere più a che spartire con un miliardario che spende 250 mila euro che con una persona che attraversa il Mediterraneo su una barca per 3 mila euro. All’interno della fortezza Europa c’è un sacco di gente per bene che ha mollato: è un luogo curioso dove, al fianco di chi erige muri, c’è un vasto pubblico fermo a guardare scene mortifere che perdono, negli anni, dimensionalità, si appiattiscono.

 

L’Occidente si fregia della propria superiorità morale, e dunque del suo merito di vivere nel mondo, sulla base del potere che ha nel definire «l’altro». L’altro è, come analizza l’accademico Costas Douzinas, sempre risolvibile nel binomio carnefice-vittima, «noi», invece, siamo sempre i salvatori (2007).

 

L’obiettivo della nostra carità è una massa amorfa di persone: popola gli schermi televisivi, i giornali e le campagne di raccolta fondi delle Ong, mai come soggetto, sempre come oggetto. Le vittime sfilano esauste, torturate, affamate ma sempre senza nome, una folla. Douzinas analizza come queste categorie, nelle teoria dei diritti umani, abbiano influenzato la definizione di cosa è umano e cosa disumano, subumano. Di conseguenza, hanno influenzato il rapporto con chi agisce o subisce male, e chi, in Occidente, decide dall’alto, chi punire, chi salvare e chi lasciar morire. Le lotte per i diritti umani sono simboliche e politiche: il loro campo di battaglia immediato è il significato di parole come «differenza», «uguaglianza» e «alterità», ma se hanno successo, hanno conseguenze ontologiche, ovvero cambiano radicalmente la costituzione del soggetto giuridico e influenzano la vita delle persone.

 

Per esempio, un rifugiato la cui richiesta di entrare nel Paese ricevente è stata costruita in termini di diritti umani è un soggetto più privilegiato, più «umano», di un altro, la cui richiesta invece è letta semplicemente come «economica», trasformandolo in un soggetto «fasullo». Il soggetto fasullo, esemplificato nel dibattito pubblico nel migrante economico, non è abbastanza umano per meritare di sopravvivere.

 

Che vuol dire alla fine lo slogan «nessuno è illegale»? Significa che nessuno nasce intrinsecamente illegale, ma che è legato, com’è chiaro, al contesto politico e giuridico contemporaneo. Per riscrivere cosa è umano, per proteggere quindi la dignità intrinseca di ogni essere vivente, è essenziale sciogliere la triade del salvatore, carnefice, vittima. Questi «altri» non ci piacciono davvero, ma ci piace compatirli: sono loro, i selvaggi, le vittime, a renderci civili.