La Campagna Abiti Puliti è a fianco delle lavoratrici che, nel mondo, vengono private dei diritti nella filiera tessile. In occasione dei Mondiali di calcio femminile gli attivisti chiedono ai brand sportivi di firmare accordi su salari, Tfr e libertà di associazione

Sono passati dodici anni da quell’epifania violenta: vedere le mie coetanee uscire dalle fabbriche, poterle osservare per puro caso perché l’occhio dei viaggiatori bianchi non si sarebbe dovuto trovare lì. Era l’ora di punta e gli stabilimenti tessili si iniziavano a svuotare, la città si immobilizzava. Io non avevo mai visto così tante persone nella mia vita, erano migliaia, il traffico non scorreva e, per due ore almeno rimasi lì, dentro la macchina, e le potei guardare in faccia una a una. Erano tutte in pigiama, vestite con dei completi colorati e le infradito ai piedi. Pronte, a gruppetti, a salire sul retro di un pick-up per tornare verso le campagne della Cambogia, fuori dal centro di Phnom Penh.

In quei chilometri di fabbriche, riconobbi molti, se non tutti, i nomi di brand che bramavo come qualsiasi adolescente che con dieci euro provava a non sentirsi esclusa dalle mode, mossa dalla necessità di essere riconosciuta. Affinché non si faccia esperienza di verità solo per caso, è nata la Campagna Abiti Puliti che da più di trent’anni chiede giustizia per le lavoratrici che, nel mondo, muoiono e vengono sfruttate nelle filiera di produzione tessile.

In questi giorni, mentre in Australia e Nuova Zelanda si tengono i Mondiali di calcio femminile, gli attivisti e le attiviste della Campagna Abiti Puliti si mobilitano, globalmente, per far luce sulle responsabilità e lo sfruttamento nelle catene di fornitura dei più importanti marchi sportivi del mondo, nonché i principali sponsor della competizione: Adidas e Nike.

Per citare solo alcuni casi lampanti, in Cambogia, 30.190 lavoratrici in otto fabbriche fornitrici di Adidas dall’inizio della pandemia aspettano 11,7 milioni di dollari di salari non pagati e Tfr, circa 387 dollari per lavoratrice. Nello stesso periodo, il primo trimestre del 2021, Adidas accumulava 650 milioni di dollari di profitti. Sempre in Cambogia, alle operaie della fabbrica Hulu Garment, licenziate in tronco nel 2020, non sono mai stati pagati 1,1 milioni di dollari di indennità di licenziamento. Questo furto di salario e di buonuscita si estende ben oltre la Cambogia, lungo tutta la catena di fornitura globale di Adidas.

Nike, da parte sua, deve circa 2,2 milioni di dollari di salari e indennità di licenziamento non corrisposti alle lavoratrici cambogiane e thailandesi. Nello specifico, alle operaie della fabbrica Violet Apparel, in Cambogia, di proprietà del principale partner produttivo di Nike, il Ramatex Group, spettano 1,4 milioni di dollari in benefici legali. Alle lavoratrici della Hong Seng Knitting, in Thailandia, costrette ad accettare permessi non retribuiti quando la fabbrica è stata chiusa temporaneamente durante la pandemia, spettano oltre 800 mila dollari. I casi di furti salariali e di licenziamenti non retribuiti, aumentati massicciamente durante la pandemia, non sono un fenomeno nuovo.

Il problema è sistemico e quindi necessita di risorse adeguate e strutturali. Per questo, assieme a numerosi sindacati dei Paesi produttori, si chiede ad Adidas e Nike di firmare un accordo vincolante sui salari, sul trattamento di fine rapporto e sulla libertà di associazione per garantire che i lavoratori e le lavoratrici delle loro catene di fornitura non siano mai più privati del loro salario e del Tfr. Con queste premesse sarà difficile godersi i Mondiali: chi paga, davvero, per l’intrattenimento?