Dobbiamo ricordare in modo veritiero chi fu come uomo, imprenditore e politico. Non nasconderci dietro al dito della pietà per i morti. Che non ci assolverà dal compito storico di costruire attivamente l’opposizione alla sua nefasta eredità

Il ricordo della mia prima manifestazione è immerso nel viola. Era il 5 dicembre 2009, frequentavo il primo anno di liceo, e a Roma fu chiamato un corteo organizzato per lo più su Facebook da una rete chiamata “il Popolo Viola,” colore che in quel momento non rappresentava nessun partito. La piazza era stata chiamata in ottobre, due giorni dopo la dichiarazione di incostituzionalità del Lodo Alfano, che permetteva a Silvio Berlusconi di non essere processato finché fosse stato presidente del Consiglio. Il volto di Berlusconi era ovunque: si indossavano maschere di cartone con il suo volto e gli occhi bucati, un “no” in fronte. In corteo pare ci fosse mezzo milione di persone, sul palco a San Giovanni cantava Roberto Vecchioni.

A casa mia non si vedeva Mediaset ed è interessante ripercorrere la memoria di chi, per generazione, l’ha visto defilato e comunque onnipresente. Ovviamente gli eredi di Berlusconi hanno già da tempo preso posto, hanno aggiunto sedie, sebbene con dei tramonti più brevi, come prescritto da un’attenzione mediatica più bassa, da una macchina che trita con più vigore. Ricostruire ciò che ha distrutto è impossibile, ma ricostruire un’immagine veritiera dell’uomo e del politico è un dovere civile.

Il circo della beatificazione del male è soltanto l’ultima vittoria del sistema culturale, sociale, mediatico e politico da lui inaugurato. È normale che susciti spavento la mancanza di capacità critica, ma soprattutto di coraggio nel poter, e saper, definire cosa è male, cosa è ingiusto. Nascondersi dietro il dito della pietà cristiana non ci assolverà dal ruolo storico di dover costruire attivamente l’opposizione alla sua eredità politica. Il rispetto, in vita e nella morte, è per le persone detenute nei lager libici, nei Cie e nei Cpr italiani, per Carlo Giuliani, per le persone torturate alla Diaz.

Berlusconi ha sdoganato l’idea di una società senza classi che ha permesso ai post-fascisti di trovare la strada per il governo, ma, nella sua sconfitta, ha anche consegnato l’Italia a un susseguirsi di governi tecnici e di austerità rapace. Il pericoloso processo di assuefazione a cui stiamo assistendo rende Berlusconi impunibile anche nella morte.

Rifiutare la santificazione significa costruire attivamente, o ricostruire, l’opposizione a un mondo corrotto e decrepito di cui Berlusconi è stato interprete multiforme e ambiguo. Ricordare non significa accanirsi sul morto, significa pretendere una memoria collettiva, memoria che non può, per forza di cose, che essere accesa da rabbia e astio.

La sinistra è morta quando ha smesso di opporsi attivamente: quando ha iniziato a disprezzare solo vilmente. Chi ama profondamente la vita e lotta per la giustizia non può che provare rabbia. Un sentimento non basato sull’invidia, ma anzi che ha le radici in una passione sana e potentemente vitale, di chi pretende di vivere con dignità e pretende lo stesso per gli altri.

Da donna e povera comunista, ho detestato Berlusconi con ogni cellula del mio corpo: disdegno l’ascesa e chi l’ha permessa, chi lo ha ora reso icona pop, chi lo assolve; contesto gli agiografi sottopagati d’oggi. Disprezzo i politici e i sindacalisti che forse hanno fatto troppe ore di catechismo.

Non è vero che sta alla Storia giudicare, sta a noi tenere viva la memoria dei fatti; non lasciare che la morte edulcori, santifichi; non lasciare che la morti annulli, azzeri. Tenere viva la memoria collettiva di chi contro di lui ha resistito e lottato fino a oggi.