Sette su 10 l’hanno lasciata per il costo delle case. Un fenomeno che riguarda anche le classi medie. Ma c’è chi lotta

Venezia, svuotata come prima di un’alluvione, è attraversata da quasi 23 milioni di turisti l’anno, terrorizzati di perdere lo spettacolo, in attesa dell’ultimo atto. Su dieci, sette persone hanno lasciato Venezia per il costo dell’abitare (Coses). L’esodo è di circa mille abitanti all’anno con salti significativi: 110 mila abitanti negli anni Settanta, 66 mila all’inizio del millennio e 49 mila nel 2022. La monocultura turistica di massa, nei decenni, è stata l’unico motore economico della città, sfaldando così le comunità e il tessuto sociale.

 

Sul comune di Venezia, Airbnb ha più di 7 mila annunci di alloggi: il 22% degli host ne gestisce il 62% e il 5% degli host il 33%. La fragilità abitativa non riguarda solo un proletariato o sottoproletariato urbano, ma anche “classi” medie e medio-alte, come i mascherai e gli ex-artigiani. «Siamo in un lunapark, dove noi siamo forse comparse e creiamo un certo folklore per cui però nessuno ci paga», mi racconta Chiara di Asc, l’Assemblea sociale per la casa, qui a Venezia. «Chiediamo quindi una redistribuzione di quel reddito che è di natura assolutamente oligopolistica».

 

La questione dell’abbandono del patrimonio pubblico è molto forte e sentita, in risposta, l’occupazione delle case, pubbliche, vuote e non assegnabili, è necessaria. I veneziani hanno a disposizione un patrimonio di edilizia popolare relativamente grande, l’8%, rispetto ad una media nazionale del 4%. Ad oggi, Ater, l’Azienda territoriale per l’edilizia residenziale pubblica, e il Comune di Venezia lasciano sfitti più di 2.000 alloggi popolari, negando il diritto all’abitare a migliaia di persone (Osservatorio Ocio). Le occupazioni portate avanti da Asc a Venezia sono circa cinquanta. Occupare gli alloggi non risolve strutturalmente il problema, ma pone l’attenzione sull’erosione, su scala nazionale, del welfare e la conseguente mancanza di fondi per rendere assegnabili gli alloggi, creando così un inceppo stagnante.

 

Asc, tramite la pratica dell’occupazione e la presentazione di progetti delle varie amministrazioni, ha dimostrato che ristrutturare a basso costo, creando dei circoli virtuosi, è assolutamente possibile. Lotta per la casa non significa affogarsi nella futuribilità di universi postumi al turbo-capitalismo, ma significa mettere fuoco sull’accelerata post-pandemica degli accessi di sfratto.

 

La colpa dei processi di gentrificazione non può essere addossata semplicemente a chi devolve la propria casa in un’attività ricettiva, magari trasferendosi in periferia, narrazione che stimolerebbe, tutt’al più, una consueta guerra tra poveri; la responsabilità è indubbiamente delle politiche pubbliche che hanno svenduto una città rendendola inabitabile per chi la vive davvero. Su questo punto il discorso pubblico è saturo così come la denuncia sociale, affrontata con una fastidiosa attenzione curatoriale.

 

L’altro grande motore economico e culturale di Venezia, è la Biennale che, nonostante la saltuaria collaborazione con realtà di lotta, restituisce alle comunità locali giusto qualche briciola (qui la loro replica). È virtuosa la pratica di Asc con il padiglione tedesco, in cui, negli scorsi mesi, si sono creati laboratori di manutenzione e cura urbana, ma perché l’amministrazione non mette a sistema una progettualità di riutilizzo delle tonnellate di materiali che la Biennale spreca? La Biennale è una grande discarica, Mestre è un dormitorio, Marghera è una fabbrica, Venezia è una vetrina, un parco giochi, uno scheletro spolpato.

 

Leggi: LA REPLICA DELLA BIENNALE