I movimenti e gli attivisti non raccontano, bensì mostrano l’emergenza ambientale, sociale ed economica che ci sta travolgendo a livello globale. Di fronte alla fine, tutti – cittadini, istituzioni e media – devono decidere come mobilitarsi

In “Lullaby”, Chuck Palahniuk scrive che «ogni generazione vuole essere l’ultima». Scientificamente parlando, sembra che noi ce la faremo davvero. Sul desiderio di essere gli ultimi si è scritto e detto molto, così come su cosa ricostruire dopo la fine. Nella miriade di feticci apocalittici, ogni singola persona sul pianeta Terra crea e interpreta la realtà reagendo a stimoli diversi, personali e unici. Al contrario, chi agisce politicamente deve rendere pubblica e convincente la propria interpretazione della realtà; deve gridare forte e chiaro fatti e dati, ma deve anche rendere collettivo e urgente il presente. Consapevoli della fine, bisogna agire – suggeriscono.

 

Quale sia la fine e cosa si debba fare per evitarla è uno spazio infinito di possibilità e probabilità. Sicuramente, però, bisogna collocarsi da qualche parte e cominciare a muoversi; se si è abbastanza umili e autocritici, il movimento non sarà solo in avanti. L’universo personale di valori ed esperienze crea l’urgenza di ciò che deve essere salvato, protetto, e di ciò che deve essere sacrificato. Allo stesso tempo, le persone si influenzano e si fanno pressione reciprocamente; producono miti sulla purezza di una lotta. Creano bolle, anche di natura informativa; a volte le fanno scoppiare, a volte le fondono, più spesso le atomizzano.

 

Mentre agiscono, interpretano e mediano; il presente, nelle parole di György Lukács, diventa un problema della Storia. Le persone disposte ad agire decidono, in modo casuale, ma anche estremamente consapevole, dove soffermarsi, da dove partire. Producono significato intorno all’appartenenza al presente. Questa complessa mappa di interpretazione e produzione collettiva della «fine», nonché la costruzione del significato esistenziale che si ritrova nel mobilitarsi in un futuro incerto e onnipresente, deve necessariamente ispirarci a capirci.

 

«La rivoluzione non sarà trasmessa in tv», recitava Gil Scott-Heron durante i movimenti civili statunitensi degli anni ’70, nella sua omonima poesia-canzone. Qualunque sia il significato che attribuiamo alla parola «rivoluzione», che si tratti di un cambiamento radicale o, in senso strettamente etimologico, di un continuo girare in tondo, questo verso potrebbe parlarci. Mentre la realtà onnipresente di Internet ci assorbe, potremmo anche desiderare qualcosa di rivoluzionario con un gusto leggermente diverso. Forse le parole di Audre Lorde risuoneranno e potremo creare nuovi strumenti per smantellare ciò che ci opprime. Tuttavia, c’è un’attrazione crescente e tesa tra le promesse rivoluzionarie e un sistema al collasso.

 

Probabilmente la rivoluzione non sarà trasmessa in tv, ma il collasso climatico, sociale, economico e politico sarà trasmesso in diretta streaming in alta definizione. In ogni momento futuro, sempre più di adesso, scorreremo immagini che lo ritraggono: video di inondazioni, incendi e persone sfollate, fino a quando non saremo noi a registrare. Fino alla fine saremo tutti connessi, fino alla fine saremo esseri che prima di tutto si adattano, poi, solo poi, arriverà «la fine». E in questa tensione muta tra promesse rivoluzionarie e crollo, è essenziale indagare chi crea l’immaginario dell’Apocalisse. I movimenti globali che si battono per la giustizia ambientale devono «mostrare, non raccontare» la realtà dell’emergenza climatica a livello globale affinché i cittadini si mobilitino, le istituzioni agiscano e i media raccontino la verità.