I termini che usiamo delineano il nostro pensiero. Sono veicolo potenziale di violenza o di cura. E riproducono concetti che interiorizziamo. Perciò devono essere ponderati. Liberiamoci da strutture superate per descrivere gli altri senza ingabbiarli

Il linguaggio è un agente potenziale di violenza o di cura. Le parole, soprattutto, delineano modi di pensare. Scrivendo riproduciamo norme, spesso non esplicite, diventate ormai prassi. Il linguaggio accademico, per esempio, è un produttore di sapere elitario ed escludente. Soprattutto ciò che viene scritto accademicamente, autorevole e legittimo per definizione grazie ai rapporti di forza che veicolano il messaggio, viene tramandato e interiorizzato, diventa un modo di pensare naturale: diventa norma. E nella norma, in ciò che è noto, si nasconde il politico. Perché non riusciamo a pensare soluzioni alternative per la trasmissione del sapere? Forme che siano veramente libere e accessibili?

Forse una risposta la danno le sorelle Ko, autrici del libro “Afro-ismo” (Vanda edizioni, 2020), quando scrivono che parte del potere della società dominante sta nel portarti via l’immaginazione; così che la maniera in cui il mondo ti viene presentato è l’unica in cui potrà mai essere e la sola libertà che ti resta, dentro a questa configurazione, è cercare di sentirti a tuo agio al suo interno. Occorre configurare una nuova grammatica. Il linguaggio silenzia intere comunità di esseri viventi, descrivendole in modo inesatto o semplicemente, come spesso accade, non lasciando che siano le comunità a parlare per loro stesse.

Per esempio, riflettiamo su termini che si usano correntemente come «minoranza» e «inclusione». Parlare di minoranze alimenta un discorso oppressivo, perché rimane implicito che sono le istituzioni, spesso e volentieri, a rendere attivamente minoritarie le persone, sono loro a tracciare la linea. Infatti, la parola «minoranza», usata come etichetta, pone l’onere sulle persone indicate come «diverse» piuttosto che porre l’attenzione sull’impegno delle istituzioni nel privare sistematicamente alcune popolazioni di diritti. Al contrario, parlare di «identità minorizzate» sposta l’attenzione da chi si arroga il diritto di poter definire la natura e le modalità di chi è diverso, di chi è in minoranza, a chi è considerato «diverso».

Questa semplice mutazione di forma, da «minoranza» a «minorizzato», cambia, in realtà, radicalmente le carte in tavola. La «minoranza», percepita come un agglomerato informe, si trasforma in identità possibili: per ognuna di queste si riconosce l’individualità. In secondo luogo, con «identità minorizzate» si sottolinea la direzione del potere, si esplicita la Storia del creare minoranze.

Per quanto riguarda il termine «inclusione», invece, Nelson Maldonado-Torres, professore di Letterature comparate e studioso dei processi della colonialità, ci suggerisce che «l’opposto dell’esclusione, in contesti strutturati dalla colonialità, non è l’inclusione, ma la decolonizzazione». L’inclusione, in questi contesti, è solo un’altra forma di colonialità: è forzare dei movimenti verso un «noi riconosciuto» senza spianare davvero la strada, già nel linguaggio, già usando il termine «inclusione» attiviamo un processo.

Quando si parla di linguaggio, dobbiamo fare lo sforzo di metterci in discussione, capire cosa è interiorizzato, naturalizzato. Dobbiamo «decostruirci» nel senso di osservare la struttura che ci compone e vedere se riusciamo a cambiare forma: a diventare più liberi, per esempio; a descrivere l’altro senza cristallizzarlo, senza ingabbiarlo. Sono affezionata a quei versi di Bergonzoni: «Ti parlerò nella mia lingua e poi la inghiottirò».