Le amministrazioni adottano spesso politiche che sistematizzano l’esclusione sociale, spazzando i problemi nelle aree periferiche. Perché chi paga per abitare in un quartiere bene non vuole essere disturbato dalla vista degli ultimi

Mentre scrivo, noto che ho due schede di browser aperte su due video diversi: uno della contemporaneità catturata da Termini Tv e l’altro dei Troppolitani di Antonio Rezza e Flavia Mastrella, che alla fine degli anni ’90 si aggiravano per la stazione di Roma. Rezza, con un microfono arrotolato al dito, intavola con le persone che incontra conversazioni surreali e talvolta profondissime: disquisisce dell’impossibilità di far parte di una società funzionale, del senso stesso di vivere ancora in società. Il tutto porgendo un carciofo-microfono agli intervistati.

Mentre scrivo, faccio delle pause e alterno i video cercando di trovare delle somiglianze; riconosco l’architettura e i negozi storici. Tuttavia, la realtà del quartiere che abito sembra irriconoscibile; più di ogni altra cosa, noto un rapporto con la telecamera radicalmente mutato. Sicuramente il ritmo incalzante delle domande dell’artista rompe il patto di formalità e bilateralità dell’intervista, genera altri spazi, altri tempi. La troupe riesce a creare intorno a sé una fitta rete dove chi vi si addentra rimane impigliato, anche solo per distrazione o curiosità.

Mi colpisce il tempo spassionato delle persone, che non vanno di fretta, e di loro mi emoziona come vivono la telecamera come qualcosa di insignificante: nessuno si sistema i capelli, nessuno guarda in camera. Spesso gli incastrati da Rezza si mettono a parlare tra di loro fuori campo, quando hanno qualcosa da condividere lo fanno senza foga: nessuno sembra aspirare a diventare famoso per 15 minuti.

Adesso di quel presente lontano mi sembra rimanga solo la fitta rete che incastra e affossa chi la attraversa. Martedì mattina, com’era previsto, è stata sgomberata una tendopoli in cui abitava almeno una sessantina di persone, a ridosso delle Mura Aureliane, nei pressi della stazione Termini. Un’amica di vecchia data che ci ha abitato per un periodo mi raccontava come l’avessero battezzata “la Valle delle Stelle”, per la relativa mancanza di inquinamento luminoso in quella parte così centrale di Roma. Alcuni titoli sul tema raccontano che la tendopoli preoccupava il Campidoglio in vista del Giubileo.

Come accade sempre, si tratta di sgomberi puramente estetici, di spazi pubblici che subiscono restyling come fossero appartamenti di extra-lusso e che nascondono invece da precise politiche pubbliche di gentrificazione e speculazione. Le quali sistematizzano l’esclusione sociale spazzando nelle aree periferiche il «problema»: sempre più lontano dagli occhi e dal cuore. Il ragionamento sembra essere che chi paga per abitare in un quartiere «decoroso» paga soprattutto per non vedere la povertà, per non essere disturbato dalle elemosina, per non doversi ricordare la distanza tra sé e i cinque milioni di persone in povertà assoluta.

L’ottobre scorso, l’associazione Nonna Roma denunciava quasi seimila ordini di allontanamento ai senza dimora, Daspo inutili che obbligano le persone al giro dell’oca. Si parla sempre di «emergenza» per giustificare metodi violenti e poco lungimiranti, ma non c’è nessuna emergenza freddo: ci sono solo amministrazioni che decidono, ogni anno, di far morire le persone per strada perché l’anno precedente hanno tappato dei buchi invece di costruire una vera alternativa.

Dovremmo guardare al modello finlandese per cui lo Stato, senza condizioni, garantisce un alloggio ai senza dimora. Il risultato è che quattro persone su cinque sono tornate a una vita stabile, risparmiando così anche su spese sanitarie, sociali e giudiziarie.