Vitalizi, indennità speciali, nepotismo. I parlamentini locali hanno pochissimi poteri ma innumerevoli privilegi. E nessun controllo. E costano 1,4 miliardi all’anno, quanto la Camera

Voleva ricreare i cittadini laziali coniugando «sanità e cultura», dichiarò. Per questo si candidava alla Regione a sostegno di Francesco Rocca. Fallito il bersaglio, Lorenza Lei ha dovuto ridimensionare le aspirazioni. Appena insediato, Rocca l’ha nominata capo della struttura di diretta collaborazione «cinema» del presidente della Regione Lazio. Sempre meglio che niente.

 

E ci starebbe pure, facendo finta di non sapere che è un risarcimento per la débâcle elettorale: vicepresidente della e-Campus, Lorenza Lei è stata direttrice generale della Rai. Ma la ragione per cui il presidente della Regione Lazio dovrebbe avere nel proprio staff una “struttura autonoma” per il cinema è comunque un mistero.

 

Forse non c’è già un assessorato alla Cultura, affidato alla leghista Simona Baldassarre, che ha competenza sulle plurime iniziative locali in campo cinematografico? E una Fondazione film commission, con tanto di presidente, cda e budget di 9 milioni l’anno? E perfino la società in house Lazio Innova che foraggia il cinema tramite fondi europei? Ma non affannatevi a cercare spiegazioni. Qui tutto è possibile.

 

Vent’anni fa l’economista Vito Tanzi ammoniva i tifosi del federalismo straccione in salsa italiana circa il pericolo di consegnare il potere nelle mani di una classe dirigente locale ancora più modesta di quella nazionale. Già non proprio eccellente. E nemmeno gli scandali del 2012, con metà dei consiglieri regionali di tutta Italia indagati per l’uso personale o improprio dei denari pubblici destinati ai gruppi politici, hanno potuto dare una svolta.

 

Ecco tornati, sia pure in una forma diversa, i vitalizi. Gli aumenti nei rimborsi spese hanno in certe Regioni più che compensato il taglio delle indennità. Né sono stati intaccati privilegi previdenziali identici a quelli dei parlamentari.

 

Anche perché, al di là del profilo morale, non si è mai voluto mettere mano ai problemi di fondo. La verità è che tutto il potere è concentrato nelle mani dei presidenti di giunta e i consiglieri regionali hanno prerogative limitatissime. La loro principale funzione politica è portare voti al candidato presidente preservando il proprio bacino di consenso. Che poi si traduce nella difesa di piccoli spazi di manovra personale: banalmente, soldi e collaboratori. E tutto viene di conseguenza. A cominciare dalla polverizzazione delle liste.

 

Così si spiega la cosa più assurda. Ovvero la proliferazione di gruppi politici composti da una sola persona. Mentre per costituire un gruppo alle Camere è necessario un numero minimo di aderenti, non essendoci nessun vincolo del genere nelle Regioni è invece possibile che ogni consigliere si faccia il proprio. Per ragioni ovvie. Un gruppo consiliare ha diritto a spazi fisici dedicati e ad assumere collaboratori a tempo determinato. Tre, per esempio, nel Lazio. Un gruppo poi partecipa ai negoziati sui calendari delle sedute e alla spartizione di minuscoli ambiti di potere, tipo le presidenze di commissioni. Ce n’è per tutti: sempre nel Lazio ci sono 15 commissioni per 12 gruppi e 50 consiglieri.

 

È un meccanismo strisciante e infernale, capace di moltiplicare posti di lavoro inutili, costi e inefficienze. In quel 2012 della grande crisi delle Regioni anche per questo c’era chi pensava di vietare i monogruppi, con l’idea di dare una strigliata morale al sistema. Ma l’ipotesi tramontò ben presto. Nicola Zingaretti la bollò quasi fosse un’offesa alla democrazia. E allora i consiglieri erano ancora un migliaio e i monogruppi 62.

 

Adesso invece per 897 consiglieri i monogruppi sono 65, cioè quasi un terzo dei 214 gruppi in tutta Italia. Con aspetti a dir poco surreali. Il consiglio della Provincia autonoma di Trento ne conta 8 su 13. I 21 consiglieri del Molise, sono spartiti in 11 gruppi politici di cui 6 con una sola persona.

 

Nel Lazio i monogruppi sono 5. Uno di questi è appannaggio del candidato presidente del centrosinistra Alessio D’Amato: «Insieme per il Lazio». Curiosamente ce n’è anche un altro che porta il suo nome. È «Lista civica D’Amato», di cui è unica componente la dirigente del Pd Marta Bonafoni. Che però fa parte di un gruppo diverso da quello del suo partito, pur essendo coordinatrice della segreteria nazionale di Elly Schlein.

 

Anche nel consiglio regionale dell’Abruzzo c’è un monogruppo intitolato al portabandiera sconfitto del centrosinistra Giovanni Legnini. Si chiama «Legnini presidente», ma Legnini in Regione non c’è. Ha preferito dedicarsi alla più proficua attività di commissario per la ricostruzione delle zone terremotate.

 

Non l’unico candidato presidente che dopo aver perso alle regionali se n’è andato in altri lidi. Per il comprensibile disappunto di molti elettori che si sono sentiti traditi.

 

Era già successo a Emma Bonino, rimasta in Senato dopo la sconfitta nel 2010 alle regionali del Lazio. Ed è accaduto dieci anni dopo a Susanna Ceccardi, candidata senza fortuna della destra in Toscana, che ha scelto di mantenere il seggio all’Europarlamento. Come lei Lucia Borgonzoni, battuta in Emilia Romagna, non ha voluto lasciare la poltrona di palazzo Madama nonostante avesse promesso di tener fede all’impegno regionale anche in caso di una batosta.

 

Così anche Raffaele Fitto. Soccombere alle elezioni regionali pugliesi non gli ha fatto venire dubbi fra l’inutile opposizione a Bari e uno strapuntino a Strasburgo. Ha scelto la seconda opzione.

 

Se però alle elezioni regionali si vince, è tutta un’altra storia. Prendete Renato Schifani, ex presidente del Senato. Non ha certo perduto l’onore conquistando la presidenza della Regione siciliana. Anzi. Per certi versi è un upgrade. L’autonomia può fare miracoli. Non ci credete? Il nuovo corso è stato inaugurato con uno spettacolare aumento delle indennità dei consiglieri, che qui si chiamano “deputati”. Novecento euro al mese, con il pretesto di recuperare l’inflazione. Pure i deputati, quelli veri, se lo possono scordare.

 

Miracoli però si possono fare anche senza l’autonomia. Unica nel Paese, la Calabria ha due capoluoghi di Regione. È l’eredità dei moti del 1970 a Reggio Calabria quando i neofascisti di Ciccio Franco al grido di «boia chi molla!» misero a ferro e fuoco la città contro il trasferimento del capoluogo. Si risolse lasciando il consiglio regionale a Reggio, 160 chilometri dalla sede della giunta, collocata a Catanzaro. Per sedare poi le possibili ire dei cosentini, misero a Cosenza la sede della Rai.

 

Presidente della Regione è dal 2021 il deputato di Forza Italia Roberto Occhiuto, che ha completato in tal modo il bouquet politico familiare. Uscito lui dal parlamento, entra (in Senato) il fratello Mario, ex sindaco di Cosenza. Mentre la sua compagna Matilde Siracusano, figlia dell’ex assessore ai Lavori pubblici della Provincia di Messina, è sottosegretaria ai Rapporti con il Parlamento.

 

Gli affetti familiari sono una caratteristica tipica delle classi politiche locali. Parenti fanno capolino un po’ ovunque. Nel Lazio la figlia del potente ex onorevole Pd Pietro Tidei, Marietta. E Sara Battisti, la moglie di Albino Ruberti, già capo di gabinetto di Nicola Zingaretti e Roberto Gualtieri. In Sicilia il figlio dell’ex presidente della Regione Vincenzo Leanza, Calogero. In Molise il cognato dell’europarlamentare Aldo Patriciello, Vincenzo Cotugno. Solo per citarne alcuni.

 

Alle ultime regionali della Campania su 50 consiglieri sono stati eletti 8 parenti. Chissà se per compensare il divieto all’assunzione nelle segreterie politiche dei congiunti dei consiglieri fino al terzo grado introdotto nel 2013. Il vincolo veniva aggirato assumendo l’uno il parente dell’altro. Ma almeno era un paletto. Adesso non c’è neppure quello. Spazzato via nel 2021. E tutto è come prima.

 

Ha sempre funzionato così. Gli enti e le società pubbliche assumono direttamente le persone che poi vengono comandate nelle segreterie politiche dei consigli regionali. A bizzeffe. Nel consiglio della Campania ce ne sono un centinaio. La sola segreteria del presidente del consiglio regionale Gennaro Oliviero ne conta sette.

 

Prima dell’insediamento di Rocca i collaboratori esterni dei 50 consiglieri del Lazio risultavano 157. Fra questi molti sindaci e amministratori di comuni medi e piccoli. Tradizione destinata a continuare anche con il nuovo corso, se è vero che a collaborare con il presidente del consiglio regionale Antonio Aurigemma c’è la sindaca di Nerola Sabrina Granieri. In uno staff di 14 persone e due dirigenti.

 

Quanta gente lavora nei consigli regionali con esattezza non sappiamo. I dati spesso neppure ci sono. Ma i dipendenti fissi sono almeno 4 mila, e senza contare i 2 mila collaboratori dei politici. Il record è nel Lazio, che ha pianta organica di 495 dipendenti e 26 dirigenti. Per non parlare della Calabria, 15 addetti per ogni consigliere: 456 in tutto per 31 consiglieri. Il quintuplo del parlamento nazionale, dove però il lavoro è di ben altra importanza e intensità. Per fare un confronto, la Lombardia ha 282 dipendenti per 80 eletti.

 

Sorprenderà sapere che i consigli regionali costano tutti insieme come un altro parlamento: 1,4 miliardi l’anno. Ben più grande dovrebbe tuttavia essere la sorpresa per come questa politica fa funzionare le Regioni. Le condizioni spesso indecenti in cui versa la sanità pubblica sono il risultato.