Vallette, Barriera di Milano, Borgo Vittoria. Un tempo zone con un’identità forte, oggi abbandonate ed escluse dal circuito della nuova ricchezza creato dai grandi eventi. Dove organizzare la partecipazione politica è sempre più difficile (Foto di Michele D’Ottavio)

Non è né sole né luna Torino, semmai una supernova. Così l’ha ritratta sui manifesti dell’ultimo Salone del Libro l’illustratrice Elisa Seitzinger: un astro in continua esplosione fin da Expo ‘61 che innescò la sua sindrome di capitale mancata. Tale e quale a oggi, quando la fiammata dei grandi eventi come l’Eurovision (il 25 gennaio a Palazzo Madama, Rotterdam consegnerà le chiavi dell’evento) cicatrizza per poco le ferite di un progresso abortito, visibile nelle periferie, tra i monconi della monorotaia al Lingotto e le torri alveolari delle Vallette. Se è vero che a un’esplosione segue un’onda d’urto, quella della supernova Torino oggi emerge nelle proteste NoVax, tra le centinaia di persone urlanti al professore Ugo Mattei: non è la Casa di carta e a far da quinta alle geremiadi sulla dittatura sanitaria c’è Palazzo Reale costellato dalle statue in marmo tatuato dello scultore Fabio Viale.

 

Ma c’è un altro, rumoroso silenzio, che attanaglia Torino da anni. Lo hanno mostrato le ultime amministrative, con il ritorno di un sindaco democratico, Stefano Lo Russo, vincente come Pirro: al ballottaggio, con una partecipazione del 42 per cento degli aventi diritto al voto.

Per sondare questa disfatta della politica si va alle Vallette, periferia nord della città, dove non si respira più l’ambizione di 60 anni fa, quando il sindaco Amedeo Peyron la scelse per festeggiare la nascita del milionesimo abitante. La ruggente Torino dei pistoni Fiat, con le torri di Gino Levi-Montalcini come dita callose sotto il cielo transalpino, oggi fa i conti con una classe operaia stremata dalla passata chiusura-lampo delle fabbriche. Un non-luogo senza servizi basilari, né supermercati né farmacie. «Qua è morto tutto», dice Sandro Toso, di origini venete, masticando noccioline.

Salvatore Barone, il titolare del bar Balby, metà chiosco metà container, per anni quartier generale del Movimento 5 Stelle, si dice deluso: «Da noi i Cinque Stelle hanno preso il 74,5 per cento. Appendino, con Di Maio e gli altri, hanno chiuso qui la campagna elettorale. Poi non li abbiamo più visti» esclama con l’amarezza di chi ha visto la politica trasformare il suo senso di rivalsa in vuoto, riflesso nei calcinacci decadenti di quella che fu la sede del Giudice di Pace, e nelle aree fantasma, un tempo adibite a servizi: «Questa dovrebbe essere una piazza mercato, ci sono solo sei banchi», indica piazzale Pollarolo. «Ci hanno chiuso anche la scuola, vogliono accorpare le classi dei bambini con i corsi per gli adulti extracomunitari», gli fa eco Sandro, memore di un’epoca al rovescio, quando la presenza di troppi bambini in poche aule fece delle Vallette il primo laboratorio italiano del tempo pieno scolastico. Figlio di una coppia fuggita dalla tragica alluvione del Polesine nel ’51, però non si dispera, riponendo fiducia nella consigliera del gruppo misto DeMa, l’ex grillina Deborah Montalbano: «Noi continuiamo a lottare, anche se manca un attivismo giovane come il nostro», dice.

 

 

 

Alessandro Ledda la sua battaglia la fa nei laboratori del bar pasticceria che ha aperto otto anni fa in piazza Tre Cabine, a Barriera di Milano. Nell’altra faccia della periferia nord, dove nasce il 30 per cento dei bambini di Torino, la linea tra legalità e microcriminalità la traccia il singolo. Fa parte della sesta circoscrizione che, insieme alla quinta, è l’unica dove ha vinto il centrodestra, con presidenti un po’ sceriffi un po’ Roosevelt, il mantra della sicurezza sulla bocca e piani regolatori in stallo nelle mani: «Ma in vent’anni Barriera è cambiata, c’è gente anche bella», puntualizza Alessandro, orgoglioso del suo bar che accoglie tutti, italiani e stranieri: «Io la mia riqualificazione urbana la sto facendo». Nel 2017 è riuscito a far ottenere a un suo dipendente gambiano l’asilo inizialmente negato e oggi nel suo laboratorio vi lavorano tre ragazzi africani: «È stata la mia rivincita», dice emozionato.

Suo fratello Tony, invece, la politica vuole cambiarla in Sala Rossa. Segretario Pd della circoscrizione, è stato il più votato del quartiere alle recenti amministrative, con un record di 551 preferenze: «Bisogna ascoltare chi si è rassegnato, a me spaventa il dato sull’astensionismo», confessa, e non si sottrae al mea culpa del suo partito: «La sinistra si è imborghesita, così s’impone chi urla più forte come il centrodestra». Per Tony va recuperato il dialogo con il centro, per questo ha lottato perché la linea 2 della metropolitana penetrasse nel quartiere: «È un modo per riavvicinare una comunità che è stata abbandonata: oggi non c’è solo la criminalità, ma anche l’analfabetismo, con il ritorno a codici di comunicazione arcaici e violenti».

Per il consigliere si tratta dell’unico modo per sottrarre Barriera di Milano al destino che la separa da Torino già nel nome, al suo orgoglio identitario che ha trasformato le aree un tempo dignitose in terre di nessuno, dove ci si fa di crack tra i murales policromatici di Milo e gli immigrati senza casa, assoldati come pusher, che languiscono ai crocicchi di largo Palermo. Il pallore di una periferia fulgente si legge ancora sulle case in litocemento di via Baltea coi sui balconi coperti da teli di plastica per frenare la nebbia pesante dell’inverno.

Il circolo Vittorio, vecchia sede del Pci, riecheggia analoga precarietà, ma per Graziano Esposito, storico militante e operatore culturale dell’associazione La Poderosa, c’è ancora bisogno di diffondere la cultura. Tra gli scaffali, le copertine di Gramsci e Berlinguer sorreggono una pila di coloratissimi libri e dizionari che Graziano dispensa ai figli degli immigrati: «Barriera di Milano ha il 50 per cento di popolazione straniera, specialmente maghrebini e tunisini. Oggi loro sono quelli che un tempo eravamo noi meridionali», ammette. Madre calabrese e padre napoletano, non si capacita di questo copione che si ripete con gli ultimi, sfruttati e pagati in nero, stipati in alloggi fatiscenti: «Quando i meridionali abitavano qui, zone come piazza Cerignola potevano essere molto violente», dice, prima di consegnare un dizionario di italiano al figlio di un commesso maghrebino.

Esce dal mini-market con un sorriso: «Barriera è il quartiere che ci dà la dimensione di come sarà Torino, di come le etnie si mischieranno. Io lo vedo come il vero futuro della città». Malgrado il suo impianto ortogonale romano sconfinato e una comunità costruita sull’incontro col forestiero, Torino ha sempre definito i suoi limiti, tra scampoli di mura urbiche e barriere daziarie. Nel fervore edilizio, per esempio, non ha mai inglobato i paesi della sua cintura: Milano li avrebbe fagocitati. Così, il magma sociale che ingenera, continua a ribollire in realtà marginali, nonostante un’amministrazione pluriennale di centrosinistra, oggi nuovamente riconquistata dopo cinque anni di Movimento.

Diventano confini anche i cantieri di Borgo Vittoria, che hanno reso via Chiesa della Salute impermeabile alla trasformazione della città: «Manca la militanza che avevamo nelle fabbriche» ammette Salvatore, tra i pochi memori della Federazione provinciale del Partito Comunista Italiano, da cui uscirono Fassino e Chiamparino: «Le fabbriche erano anche un luogo di aggregazione sociale, forse oggi i social fanno questo», ammette perplesso, e aggiunge: «Gli immigrati rappresentano quella forza giovane di cui abbiamo bisogno per fermare i fascisti che urlano da Roma».

Di giovani, la borgata ne è povera: l’autobus che la raccorda al centro si riempie di carrellini per la spesa, gli anziani dal passo incerto e bardati di mascherine Ffp2 si affastellano nel torpedone sempre più angusto. Dalla sua edicola Giovanni Scolaro ha visto negli anni il declino del quartiere, storica via del commercio cittadino: «La politica degli ultimi vent’anni ha svenduto il territorio alla grande distribuzione». Nell’indicare le saracinesche abbassate dei negozi chiusi, Giovanni vede un’amministrazione in debito sociale coi suoi cittadini: «I cantieri perenni e gli ingorghi hanno reso via della Chiesa della Salute poco attrattiva» spiega. Corso Venezia è un cantiere aperto, in corso Grosseto i negozianti hanno paura di chiudere. I lavori nei pressi della scuola L’Allievo hanno persino scoraggiato gli anziani a votare.

Il resto lo fanno sporadici episodi di microcriminalità: «C’è un problema di sicurezza se in un’intera circoscrizione operano solo due pattuglie. Ma se ne parli con il centrosinistra, ti guardano come se fossi di destra», ammette Giovanni, con non poca frustrazione: «Qui ha vinto il centrodestra, ma il problema è che il 64 per cento dei residenti non è andato a votare». All’alba di quella che il centrosinistra ha salutato come una riconquista, i democratici dovranno fare i conti con una città sempre più sfilacciata. Non basterà la promessa di un indotto economico legato ai grandi eventi a riconquistare la fiducia. Torino ha mostrato di saper cronicizzare le sue glorie passate: il rischio è che nuove supernove possano abbagliarla, con un costo sociale inimmaginabile.