Esplode la protesta la prima sera del coprifuoco. Da una parte rivoltosi con bombe carta, dall'altra una manifestazione autorizzata e non violenta. Ma la rabbia degli esclusi attraversa la città

Quella di piazza Castello ha rispettato il compito. Sin dalla sera delle proteste a Napoli è stato chiaro che una parte di Torino avrebbe risposto con la stessa violenza. E così è stato: bombe carta, cassonetti bruciati, vetrine sventrate, lanci di molotov e bottiglie. Nella prima notte di coprifuoco il centro di Torino per qualche ora è in mano a cinquecento rivoltosi. 

L’invito girato online per mano di anonimi, ma che la Digos ha da subito inquadrato in ambienti vicini all’estrema destra e al tifo organizzato, richiamava il “popolo italiano e piemontese” con frasi di fascista memoria: “Il tempo delle richieste è finito, chi ci governa non ci ascolta! Contro questa dittatura, contro questo coprifuoco e la dittatura sanitaria”. L’appuntamento alle 20.30, nella piazza dove si affaccia la sede della Regione Piemonte. 
 
Già da un’ora e mezza prima si raduna una macchia nera: le teste rasate e gli incappucciati da subito si mettono di fronte alla polizia. «Chiara, Chiara, scendi forza non hai il coraggio», chiamano la sindaca Appendino, quella che aveva promesso la riqualificazione delle periferie, e ora quelle stesse tornano a chiedere il conto. Partono insulti, provocazioni alle forze dell’ordine schierate in assetto antisommossa. «Libertà, libertà, libertà», quella di lavorare e vivere. Qualche coro, ma dura poco, si capisce subito che la piazza non è lì per discutere o manifestare. Non ci sono discorsi politici, megafoni o rivendicazioni, ma voglia di scontri. 
La protesta si trasforma in guerriglia, partono bottiglie e fumogeni da un lato, poi botti e bombe carta, la polizia risponde con qualche carica contenitiva e con lanci di lacrimogeni per disperdere il gruppo. Volano vetri da ogni direzione, un fotoreporter è colpito in piena testa, viene trasportato in ospedale in ambulanza.
 
Centri sociali, ultras e “baby riot”
 
Ma questa piazza non è così omogenea come sembra. Dopo le prime cariche voci si levano dalle frange definite antagoniste, vicine ai centri sociali: «Via i fascisti e la polizia dalla piazza». Alcuni srotolano uno striscione: “Non è il covid, il virus è il capitalismo”. Tanto basta per creare uno scontro tra fazioni, volano calci e pugni. «Dobbiamo tenere la piazza non andate via», urlano manifestanti dei centri sociali che oggi dal canale Infoaut, non rivendicano i tumulti. 
 
Ma è tardi. Una metà dei manifestanti si divide, sono molte le persone che provano a portare la calma, dicono i teppisti di non dare addosso agli agenti: «Sono qui perché di aria non posso vivere, mia moglie lavora in una palestra, come faremo?». «Vivo per strada, non mi vergogno a dirlo». «Non vogliamo i violenti qui, così fate il gioco di Conte!».
 
In questa piazza non va in scena la rabbia dei negozianti, ma quella degli esclusi, che odiano la politica, indistintamente a destra e sinistra. Insieme ai noti ultras ci sono numerose bande di ventenni incappucciati, sono loro a devastare di più: lanciano il porfido strappato da terra, si servono di tavolini e sedie come armi, distruggono monopattini e danno loro fuoco, bruciano cassonetti, danneggiano le auto parcheggiate e tutto quello che trovano sulla loro strada. 
 
Ragazzi dalla periferia, molti italiani di seconda generazione, pochissime ragazze, si muovono come stessero in un videogioco, divertiti da quello che accade, ridono, urlano insultano gli agenti. I “baby riot” sono vestiti sportivo, jeans stretti, felponi e Nike ai piedi, quelli che il sabato passeggiano proprio in centro per le vie dei negozi del lusso che ora provano a prendersi. 
 
Hanno una rabbia dentro che arriva da lontano: molti non vanno a scuola, o dovrebbero vista l’età, sentono di non avere prospettive o forse non le cercano, ma in questa notte vogliono prendersi il centro con la forza. Arrivano da un disagio vero, forse da famiglie sull’orlo del lastrico. E su di loro puntano i vecchi abituè degli scontri, ne approfittano: «Forza radunatevi e carichiamo la polizia, siete con noi?». Un battesimo del fuoco. 
 
Una guerriglia così Torino non la vedeva dai Forconi, sette anni fa, quando la protesta, alimentata proprio dagli ultras del tifo bianconero e granata, mise la città a ferro e fuoco per tre giorni. Alla fine si contano danni per decine di migliaia di euro, sette persone arrestate e due denunciate in stato di libertà, esponenti del tifo organizzato. 
 
L’altra piazza
 
«Libertà, libertà, libertà», urlano un migliaio di persone in un’altra piazza, settecento metri più in là, sul Po, piazza Vittorio. Lì si vive un’altra serata. Una manifestazione autorizzata dalla Questura e senza disordini e definita pacifica sin dalla sua promozione social: come a dire che non vogliono che si parli solo dei violenti, esistono anche loro. La gente comune. 
 
Ci sono decine di addetti della ristorazione, dipendenti del settore, albergatori e lavoratori delle palestre, ma anche piccoli commercianti, partite iva, operai, pensionati, gente che porta in piazza bimbi che dice di non sapere più come sfamare. Chiedono di convivere con il virus, perché chiudere di nuovo vuol dire fallire. 

Si passano un microfono e intervengono a turno raccontando quello che stanno passando: «In questi mesi ci siamo messi in regola, speso soldi per comprare plexiglass e sanificare, ora ci fanno chiudere. Cos’ha fatto invece il governo per prepararci alla seconda ondata?». Il Dpcm che di fatto segna un secondo lockdown per molti è la mazzata finale degli ultimi mesi di restrizioni: «Il virus ha orari che si chiudono bar e ristoranti? E poi di giorno stipati sugli autobus». In mezzo a loro anche molti negazionisti, criticano il governo e i “poteri forti” di aver creato il terrore per un virus che non esiste, girano senza mascherina, in barba ai regolamenti. 
 
«Abbiamo tenuto la piazza e isolato i violenti grazie ai buttafuori delle discoteche, oggi senza lavoro. Siamo scesi con il cuore», racconta a L'Espresso Marco Liccione, uno dei promotori dell'iniziativa: «Non abbiamo partiti o bandiere, vogliamo solo gridare la nostra disperazione e questo è solo l’inizio», racconta il trentenne, operaio nel settore trasporti, che sui social però non nasconde le simpatie per Fratelli d’Italia e Matteo Salvini. Annuncia infatti di aver ottenuto per giovedì un incontro in regione con venti rappresentanti di categoria: «Un battaglione per una guerra democratica, senza violenza».