Gli Usa di Joe Biden sono sempre più abolizionisti, Cina e Iran invece i carnefici peggiori. Intanto il nostro Paese si interroga. E le contraddizioni non mancano

Joe Biden è il primo presidente americano apertamente contrario alla pena di morte. Ed è anche per ribadire fino alla fine la distanza tra lui e il futuro presidente, che invece Donald Trump, da luglio 2020, quando sono riprese le esecuzioni federali sospese dal 2003, ha autorizzato tredici esecuzioni. Nessun presidente statunitense ne aveva permesse così tante dal 1896. Un numero senza precedenti se si considera che dal 1988 ne erano state eseguite solo tre. E sono state tre anche negli ultimi venti giorni di Trump alla Casa Bianca. L’ormai ex presidente, mentre distribuiva grazie ad amici ed ex collaboratori, si è affrettato a chiudere il suo mandato presidenziale come aveva iniziato la sua carriera politica nel 1989, quando comprò le pagine dei principali quotidiani newyorkesi per invocare la pena di morte per cinque ragazzi, quattro afroamericani e un ispanico, accusati di aggressione e stupro, ma risultati poi innocenti.

 

Le esecuzioni di Lisa Montgomery, la prima donna dopo 70 anni, affetta da problemi psichici, Dustin Higgs e Cory Johnson, entrambi malati di Covid, hanno riacceso il dibattito sulla pena capitale negli Stati Uniti. Secondo i sondaggi, il favore dell’opinione pubblica per la pena di morte è in calo. E mentre arriva la decisione storica della Virginia, che diventa il 23esimo Stato abolizionista negli Usa e il primo del sud, continuano le pressioni interne perché Biden sospenda immediatamente le esecuzioni federali e commuti le sentenze dei 47 detenuti nel braccio della morte.

 

«Negli Stati Uniti la pena di morte è ancora in vigore perché finora ha prevalso una visione retributiva, in cui la pena è simmetrica rispetto al “male commesso”, un’impostazione che in Europa da molto tempo abbiamo rifiutato», spiega Mauro Palma, giurista tra i massimi esperti in tema di diritti umani e Garante nazionale per i diritti delle persone private di libertà, che aggiunge: «Gli Stati dove c’è la pena di morte, come gli Usa, sono quelli con il più alto tasso di omicidi: non è vero che è un elemento per diminuire il numero e la gravità dei reati. Non esiste una funzione deterrente». Tra gli studi più recenti che confermano l’assenza di correlazione tra pena di morte e tasso di omicidi, c’è quello dell’Abdorrahman Boroumand Center, un’organizzazione con sede a Washington, che ha esaminato i tassi di omicidio in undici Paesi che hanno abolito la pena capitale, constatando che in dieci di questi c’è stato un calo degli omicidi nel decennio successivo all'abolizione.

 

Eppure nel mondo sono ancora più di cinquanta gli Stati in cui resta in vigore. Secondo Human Rights Watch (HRW) la Cina continua a essere il peggior carnefice, seppur con numeri incerti, nell’ordine delle migliaia all’anno, seguita dall’Iran che ha giustiziato 233 persone da gennaio a novembre 2020. Le stime fornite dal rapporto 2021 di HRW sullo stato dei diritti umani nel mondo, mostrano invece un cambio al terzo gradino di questo macabro podio: se l’Arabia Saudita, da anni uno degli Stati più inclini all’uso del boia, è passata da 184 esecuzioni nel 2019 a “sole” 15 fino a novembre 2020, in Egitto si è registrato un aumento vertiginoso sia delle sentenze sia delle esecuzioni, con 171 condannati nei primi sei mesi e 83 persone giustiziate tra gennaio e ottobre 2020.

 

In Asia, dove si concentra gran parte dei governi che ancora applica la pena di morte, ci sono Stati come il Bangladesh, che proprio nel 2020 ha deciso di usare la pena di morte per cercare di fermare l’aumento degli stupri. O le Filippine, dove il presidente Rodrigo Duterte sta pensando di introdurre la pena capitale nell’ambito della guerra alla droga che porta avanti dal 2016, e che, secondo il rapporto di HRW, ha già causato la morte di 5903 individui durante le operazioni di polizia. Ancora, secondo il rapporto, il Pakistan è uno degli Stati con più condannati nel braccio della morte, 4600 persone. Non ci sono dati certi su Laos e Corea del Nord, dove però sono state documentate esecuzioni nei kwanliso, i campi di prigionia politica, e neppure sul Vietnam che, come la Cina, considera il numero esatto delle condanne a morte un segreto di stato.

 

In molti dei Paesi non ancora abolizionisti la gamma dei reati per cui è prevista la pena capitale è decisamente ampia. Basti pensare che in Cina sono 46 i reati soggetti alla pena di morte, un terzo dei quali sono di natura economica, come corruzione e uso di tangenti. In altri, come l’Iran, la pena di morte è prevista per omosessuali e adulteri, ma ancor più spesso viene comminata per reati non violenti legati alla droga.

 

Per mettere un punto alla pratica della pena di morte nel mondo è fondamentale il ruolo di quei Paesi di più lunga tradizione abolizionista, Italia in primis. Anche grazie agli sforzi diplomatici portati avanti dalle istituzioni e dalle associazioni di settore italiane, come Nessuno tocchi Caino (NTC) o la Comunità di Sant’Egidio, il Kazakistan il 2 gennaio 2020 ha formalmente abolito la pena capitale. Allo stesso modo, il numero record di 123 Paesi favorevoli alla moratoria per l’abolizione, registrato a dicembre 2020, è un successo almeno in parte attribuibile all’Italia, che nei primi anni 2000 ne propose il progetto e spinse l’Europa a portarla per la prima volta al voto all’Assemblea generale dell’Onu nel 2007.

 

Certo è che l’azione di persuasione di questi Stati può perdere efficacia se intaccata da contraddizioni o se gli impegni a favore dei diritti umani vengono compromessi da decisioni di realpolitik. Lo denuncia Elisabetta Zamparutti, di Nessuno Tocchi Caino, cofirmataria, insieme alle organizzazioni Reprieve e Iran Human Rights, dell’appello rivolto al Ministro degli Esteri Luigi Di Maio, perché chiarisca la posizione italiana in merito agli aiuti forniti nell’ambito delle operazioni antidroga in Iran. Zamparutti sostiene che sia una «contraddizione inaccettabile per l’Italia quella di essere in prima linea contro la pena di morte, tra i principali promotori della moratoria e poi sostenere regimi tra i più sanguinari e per giunta arrivare a fornire strumenti e supporto a operazioni che condurranno all’esecuzione degli arrestati».

 

L’appello fa seguito alla notizia apparsa sul Tehran Times secondo cui l’Italia avrebbe incrementato il livello di cooperazione con la polizia antidroga iraniana. Proprio il rischio che l’assistenza europea favorisca l’aumento di esecuzioni in Iran ha portato molti governi europei, tra cui quelli di Austria, Danimarca, Germania, Irlanda e Norvegia, a rifiutare di fornire tali aiuti. NTC riporta che in Iran nel solo mese di dicembre e in una sola prigione sono state confermate 50 condanne a morte per droga e che 33 delle 49 esecuzioni eseguite nel mondo nel primo mese e mezzo del 2021 sono avvenute proprio in Iran, almeno sette per reati di droga.

L’appello chiede che sia confermato “che non verrà fornita ulteriore assistenza fino a quando il governo iraniano non abolirà definitivamente la pena di morte per i reati legati alla droga”, ma per ora non c’è stata risposta dalla Farnesina.

 

Se da un lato l’inflessibilità contro la pena di morte deve arrivare innanzitutto dalle istituzioni è altrettanto importante che anche l’opinione pubblica resti fortemente ancorata al rispetto della vita umana. «Il lungo percorso a tappe, iniziato nel 1786 con l’abolizione della pena di morte nel Granducato di Toscana, che ha condotto al concetto di pena utile e non retributiva, è una nostra tradizione di civiltà», sostiene il Garante Palma.

Invece ben due sondaggi nel corso del 2020 hanno paventato il rischio di un’inversione di tendenza tra gli italiani. L’ultimo, quello del Censis, secondo cui il 43,7% degli italiani sarebbe favorevole all’introduzione della pena di morte nel nostro ordinamento e tra i più giovani, il 45% la penserebbe in modo diametralmente opposto da quel 26enne Cesare Beccaria che per primo, oltre due secoli fa, si fece pioniere di una nuova concezione delle pene. Secondo Elisabetta Zamparutti: «Sondaggi e referendum non dovrebbero mai essere fatti su questioni che richiamano principi e valori universalmente acquisiti», men che meno in un situazione di assenza di dibattito pubblico. E aggiunge: «Questa percentuale è anche poca cosa, considerato lo stato delle cose che ha preso forma nella durata di un regime giudiziario e penitenziario, politico e mediatico che negli ultimi trent’anni si è mangiato lo stato di diritto, lo stato democratico e lo stato di coscienza e umanità del nostro Paese e del popolo italiano».

 

Allo stesso modo sarebbero da evitare le sentenze nei salotti mediatici o i post sensazionalistici sui social, che invece arrivano puntuali dopo le vicende di cronaca nera, anche da parte di alcuni politici, e che, in un modo o nell’altro, finiscono per alimentare uno sfogo senza pensiero elaborato. Basti pensare ai post che ogni tanto compaiono sui social del leader della Lega Matteo Salvini. L’ultimo in ordine di tempo neanche un mese fa: “Io sono contro la pena di morte, ma devo dire che di fronte a certa infame violenza qualche dubbio mi viene”, cui ha fatto eco quello del presidente pro tempore della Calabria, Nino Spirlì: “Delitti atroci? Non avrei certezza di essere contrario a pena morte”, che ha scatenato migliaia di condivisioni e commenti a favore della pena di morte.

«Sono temi che vanno sottratti all’emotività populista, e a quel senso semplicistico che c’è in alcune opinioni: vedo una cosa tremenda e penso a una soluzione drastica. Alcune questioni richiedono la ragionevolezza dell’istituzione, dello Stato», commenta Mauro Palma, che conclude: «Io sono per l’abolizione del però. Come non sono razzista, però... Ci sono temi su cui va mantenuto un valore assoluto. Quello del non diritto a uccidere è un valore assoluto».