Fino a ieri roccaforte delle esecuzioni capitali, lo Stato del sud volta pagina. Grazie alle proteste di Black lives matter e all’impegno degli attivisti. La scommessa è che l’onda d’urto convinca Biden a cambiare rotta

La corporatura è minuta, la voce mite, lo sguardo schivo. Nessuno, però, si lasci fuorviare: Rachel Sutphin è una gigantessa. Aveva 9 anni quando suo padre Eric, vicesceriffo della contea di Montgomery in Virginia, fu ammazzato in servizio da William Morva. L’assassino, un giovane mentalmente disturbato, fu condannato a morte. Per anni Rachel ha cercato caparbiamente di salvare la vita a chi aveva distrutto quella della sua famiglia. «Ero diciottenne quando ho iniziato a scrivere lettere per fermare l’esecuzione», ci racconta. Un coraggio impensabile. «Mi sono semplicemente chiesta: se non lo faccio io, chi dovrebbe farlo? Sapevo di avere una voce che altri adolescenti non avevano». Nonostante gli appelli, Morva è stato giustiziato nel 2017. Rachel, però, ha continuato la sua battaglia contro la pena capitale. E ha vinto. Il 24 marzo il governatore democratico Ralph Northam ha firmato la legge che cancella la pena di morte in Virginia. Agli ultimi due reclusi la sentenza è stata commutata in ergastolo. Una sigla dalla potentissima valenza simbolica.

Dopo 413 anni e 1390 esecuzioni, la Virginia è il primo stato del sud a chiudere questo capitolo. Un boia prolifico sin dalla prima esecuzione nel 1608, che ha incasellato più condanne a morte di qualsiasi altro membro dell’Unione, superato poi in età moderna solo dal Texas. Con questa roccaforte caduta, gli Stati che non autorizzano la più tremenda delle punizioni salgono a 26 su 50 (23 l’hanno archiviata, tre hanno stabilito delle moratorie). La scommessa, ora, è che la Virginia diventi un grimaldello. Gli abolizionisti sognano l’effetto domino, un’onda d’urto a sud come pure nel resto d’America. 

Il tratto lieve della penna del governatore ha spostato un macigno dal cuore grande di Rachel. «Ho pensato che potevo finalmente riprendere fiato. È dura dover costantemente parlare dell’assassinio di tuo padre», dice. Una gioia arrivata quasi inattesa. «Penso che in parte le proteste Black lives matter abbiano aiutato ad accelerare il processo, così come lo sgomento suscitato dalle tredici esecuzioni autorizzate da Trump alla fine della presidenza», aggiunge. Oggi Rachel ha 24 anni, studia per diventare pastora presbiteriana e consulente familiare. Ma non ha intenzione di abbandonare il campo. È tempo di pensare alla fine della pena di morte a livello federale. «Joe Biden in campagna elettorale aveva promesso che l’avrebbe abolita nei primi cento giorni. Non è stato così».

Il compito degli attivisti ora è quello di inchiodare il presidente alle sue parole. L’amministrazione Biden ha deluso chi si aspettava un cambio deciso di rotta, nonostante il nuovo inquilino della Casa Bianca si fosse proposto come il primo abolizionista. Certo, a giugno il ministro della giustizia Merrick Garland ha imposto una moratoria sulle esecuzioni federali in attesa di una revisione di politiche e procedure.  

Ma è troppo poco per militanti come Michael Stone, direttore di Virginians for Alternatives to the Death Penalty. Stone ha guidato le ultime fasi della campagna per l’abolizione; ricorda bene il momento della firma del governatore. «Mi sono venute in mente tutte le persone con cui ho lottato e che non sono vissute abbastanza per vedere questa vittoria. Mi piace pensare che fossero lì in spirito», dice commosso. La sua organizzazione ci lavora da trent’anni. «In passato i tempi non erano maturi, non c’era la volontà politica da parte di entrambi i partiti».

Fino a una decina di anni fa. «Fiutammo nell’aria che le cose stavano cambiando; così abbiamo allargato la base organizzativa incominciando a rivolgerci alle aree rurali, alle piccole città, raggiungendo attivamente anche i conservatori». Un lavoro di informazione, sensibilizzazione e lobby certosino. «Abbiamo dato spazio a leader afroamericani, chiese, sinagoghe, comunità locali, legali. Abbiamo messo su un grande coro». Riunione dopo riunione, a spiccare sono state le voci, potentissime, dei familiari delle vittime, tra cui quella di Rachel. «Ora non abbassiamo la guardia», ammonisce Stone: «A novembre avremo un nuovo governatore e nuovi legislatori. Non è possibile escludere a priori un ribaltamento».

L’entusiasmo, però, corre. «È un’enorme iniezione di energia. Tanti colleghi hanno gioito con noi pensando: se può accadere in Virginia, perché non in Tennessee, in Kentucky, in Georgia?». Quella che non deve essere più rimandata ora, avverte, è una riforma del sistema giudiziario. «Quasi il 40% dei condannati a morte è nero, nonostante gli afroamericani costituiscano il 13% della popolazione». La pena di capitale, dice, è una versione riveduta e corretta della schiavitù e dei linciaggi dell’epoca delle leggi razziste Jim Crow.

«È sempre stata un metodo di terrore, contro gli schiavi prima poi contro i neri liberi, le minoranze. Un modo per imporre la supremazia, il controllo dei bianchi. Il fatto che nell’era moderna, la stragrande maggioranza delle condanne e delle esecuzioni siano state portate a compimento in quella che era la Confederazione, è un riflesso diretto di quella storia». Anche Stone è convinto che la stagione di proteste scatenata dall’omicidio di George Floyd abbia avuto un ruolo cruciale. «C’è stata improvvisamente un’ondata di indignazione per l’impatto razziale del nostro sistema giudiziario. Nel dibattito è affiorato come l’abolizione della pena di morte fosse un elemento cruciale nell’ambito di una riforma».

Non ci sono dubbi a riguardo anche secondo le analisi di Robert Dunham, direttore dell’osservatorio Death Penalty Information Center. «Quanto accaduto in Virginia è estremamente significativo», dice: «Sia come trend in declino a livello nazionale, sia come indicatore storico delle relazioni razziali negli Stati Uniti. Nel Duemila erano 38 gli Stati che la utilizzavano. Oggi l’hanno abolita in 23 e molti altri ne discutono». È in questa direzione che soffia il vento. «Il supporto si erode in ogni gruppo demografico. Idem se ragioniamo per religione, genere e provenienza», prosegue. Interessante è il dato anagrafico.

«Tra i giovani l’appoggio è ai minimi. La nuova generazione si sta chiedendo addirittura perché mai abbiamo questo istituito. Se la tendenza dovesse continuare, il risultato inevitabile sarà la fine della pena di morte». Anche Dunham, però, è scettico sull’operato del presidente Biden. Non ne mette in dubbio l’integrità, ma puntualizza come nonostante le promesse, «non abbia fatto letteralmente nulla sul fronte federale. Nessuna policy chiara». E la cosa tormenta i progressisti. Per il direttore, Biden non è «filosoficamente contrario» alla pena di morte, «crede cioè che in alcuni casi sia opportuna».

Una posizione che condividono in molti. Il cruccio, ad esempio, è che dello stop alle esecuzioni giovino anche personaggi come Dylann Roof, il suprematista bianco che nel 2015 aprì il fuoco nella chiesa nera di Charleston uccidendo nove fedeli. Ovviamente l’abolizione federale richiederebbe un atto legislativo del Congresso. «Un’eventualità assai remota. Quello che invece Biden potrebbe fare immediatamente con un tratto di penna sarebbe emettere un’ordinanza che commuti tutte le condanne a morte». Eppure non lo ha fatto. 

Ma cosa c’è di più importante che salvare il destino di centinaia di donne e uomini? Se lo chiede Ron Keine, che lavora con Witness to Innocence, l’organizzazione contro la pena di morte fondata nel 2003 da suor Helen Prejean, il volto più noto dell’attivismo abolizionista; la religiosa ispirò nel ‘95 il film “Dead man walking” con Susan Sarandon e Sean Penn. Nel ‘74 Keine fu ingiustamente incriminato con tre compagni dello stupro e dell’assassinio di uno studente.

Condannato alla pena capitale, fu rilasciato dopo la confessione del vero killer. Ha trascorso due anni nel braccio della morte, vittima di un caso giudiziario orrendo, farcito di incompetenza e corruzione. «Ero un “dead man walking” (un uomo morto che cammina, ndr), oggi sono un uomo che parla. Denuncio la corruzione, sostengo gli ex detenuti che una volta fuori di prigione fanno i conti con traumi incancellabili», dice Keine.

L’attivista è speranzoso. «Ogni anno nei sondaggi aumentano i contrari. Stiamo vincendo, guadagniamo terreno», sostiene. Certo, la maggioranza (il 60%) continua ad essere favorevole alla pena di morte in caso di omicidio, ma il fronte contrario è sempre più robusto. A far scricchiolare le vecchie certezze sono i dubbi sulle modalità delle esecuzioni e sull’effetto deterrente; ma anche la convinzione che l’istituto penalizzi chi soffre di disturbi mentali, chi viene da contesti sociali disagiati e chi non è in grado di sostenere le spese legali. Molto influisce l’orientamento politico: favorevole il 46% dei democratici a fronte del 77% dei repubblicani.

Eppure Ron è conservatore, «perché essere abolizionista è una questione morale, non politica»; ma definisce una “carneficina” le esecuzioni che portano il marchio di Trump. Non si fida dei politici, crede nel popolo americano. «La gente comincia a rendersi conto della forte incidenza di condanne ingiuste», aggiunge. Gli errori giudiziari hanno un peso enorme.

Dagli anni Settanta, sono 185 le persone condannate e poi scagionate perché innocenti. «L’America si sta svegliando. Metteremo fine alla pena di morte, credo che riuscirò a vederlo con i miei occhi. Abbiamo piantato semi per anni. Stanno fiorendo», conclude soddisfatto.