Il caso
Amedeo Matacena, latitante da record
L'armatore ed ex deputato forzista, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, è in fuga a Dubai da due anni e mezzo. Nonostante l'accordo di estradizione con gli Emirati arabi. E grazie ai rinvii del Governo italiano che si è accorto dell'esistenza della pena di morte nel Paese del Golfo
Da quel giorno Matacena vive nel quartiere residenziale di Dubai Marina e, secondo quanto ha dichiarato di recente, conta di rimanere latitante il tempo sufficiente perché la sua condanna perda di validità. Altri cinque anni, secondo i suoi calcoli. Intanto, per avere collaborato alla sua fuga, sono sotto processo a Reggio Calabria la moglie, l’ex ministro dell’Interno e dell’Industria, Claudio Scajola e altri che avrebbero collaborato alla fuga secondo quanto ha ricostruito l’Espresso.
L’ipotesi dei giudici di Reggio Calabria è che Matacena abbia goduto, e goda ancora, di coperture ad altissimo livello politico e diplomatico. Un’altra inchiesta, sempre della magistratura di Reggio, chiarirà se esisteva un’associazione segreta che è intervenuta sia nella latitanza di Matacena sia nella fuga in Libano di Marcello Dell’Utri, anch’egli condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa e arrestato a Beirut il 12 aprile 2014.
La latitanza di Matacena si avvicina ormai al record di Luciano Gaucci, che ha svernato per quasi quattro anni a Santo Domingo dopo la bancarotta fraudolenta del Perugia Calcio, nonostante un mandato di cattura internazionale.
Ma Gaucci non poteva essere estradato dallo Stato caraibico per mancanza di un trattato. Nel caso del politico e armatore reggino, invece, a metà settembre del 2015 il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha firmato un accordo bilaterale con gli Emirati che avrebbe dovuto consentire l’estradizione del latitante.
Perché Matacena è ancora libero? Semplice. A sette mesi di distanza l'esecutivo non ha ancora ratificato l’accordo che deve essere vagliato da un altro dei dicasteri principali, gli Affari esteri, guidato da Paolo Gentiloni.
L’ultima occasione è andata a vuoto il 3 marzo 2016, quando si è tenuto il Consiglio dei Ministri numero 107 del governo di Matteo Renzi.
Gentiloni era in visita ufficiale a New York e il collegio ministeriale, nella fase di pre-consiglio, ha rinviato la questione a data da destinarsi.
In particolare, spiega la Farnesina, è emerso un problema di reciprocità. L’ordinamento giuridico degli Emirati prevede la pena di morte per una quantità di reati che vanno dal terrorismo al traffico di droga all’omosessualità. «Bisogna evitare», dicono fonti del ministero, «che l’Italia estradi un cittadino degli Emirati a rischio di pena capitale».
Sette mesi non sono bastati a rendersi conto del problema e a risolverlo. Eppure non è proprio un mistero che la pena di morte sia in vigore in tutti i paesi della penisola arabica, anche se gli Emirati sono ben lontani dai livelli dell’Arabia Saudita, stabilmente in testa alle classifiche delle esecuzioni insieme a Iran, Stati Uniti e Cina.
L’ultima condanna a morte nel paese del Golfo è stata eseguita nel 2014 e l’ultima sentenza capitale risale al giugno del 2015, per l’omicidio di un’insegnante statunitense, Ibolya Ryan, uccisa da una cittadina di Abu Dhabi legata ai qaedisti yemeniti.
Il rischio paventato dalla Farnesina è che un terrorista degli Emirati scappi in Italia e che la giustizia italiana debba consegnarlo al plotone di esecuzione del suo paese. A loro volta, gli Emirati hanno un problema di reciprocità, non avendo nel codice nulla che assomigli vagamente al reato di concorso esterno in associazione mafiosa.
Così, mentre il dibattito in punta di diritto prosegue, prosegue anche l’esilio dorato di Matacena.