Il governo di destracentro è un altro risultato di questo filone politico, di cui l’Italia è laboratorio. Caratteristica principale: la tendenza a brusche inversioni di marcia. Presto, però, le contraddizioni verranno al pettine. Per la premier sarà un autunno caldo

Il neopopulismo è un fenomeno politico complesso e un prisma pieno di sfaccettature (spesso contraddittorie). E dei populismi – variamente intesi e declinati – l’Italia è da almeno un secolo un laboratorio permanente e un’officina «aperta h 24». Così, per parlare solo degli ultimi anni, il nostro Paese ha sperimentato un governo gialloverde (il Conte I, giugno 2018 – settembre 2019), sorto dalla confluenza del neopopulismo postideologico del Movimento 5 Stelle con la Lega nazional-populista.

E dopo il Conte II e l’esecutivo presieduto da Mario Draghi, è la volta del governo di destracentro a trazione meloniana. Tra i cui meandri, peraltro, come confermato da vari segnali, si sviluppano le geometrie variabili di «un’intesa abbastanza cordiale» nerogialla, con relativi scambi tra FdI e M5S basati su reciproci interessi; non siamo ancora al «melocontismo», ma – come dire – fra neopopulisti ci si intende, per l’appunto.

Nulla di così stupefacente, tuttavia, poiché anche quando sono in lotta per strapparsi voti – come nel caso delle fibrillazioni tra Matteo Salvini e Giorgia Meloni – il dna risulta, almeno in parte, comune e condiviso. Un codice genetico che rende i leader e i partiti populisti bicefali e bicipiti, prontissimi – a dispetto dei proclami moraleggianti (e «anticasta») che costituiscono il pezzo forte delle loro narrazioni – all’ambiguità e all’adattamento alle circostanze. L’ultima, eclatante incarnazione è quella di «Meloni bifronte», che nel corso di questi mesi ha inanellato una sfilza di inversioni a U, sterzate impreviste e mutamenti repentini (nonché di passi del gambero e stop and go). Senza mai motivarli, né sciogliere i plurimi nodi di Gordio ereditati da un «passato che non passa», come nella natura dei neopopulisti, che non si giustificano per le contraddizioni e gli improvvisi cambi di rotta.

Il repertorio è vasto e tocca praticamente tutti gli ambiti. C’è il piano ideologico, dalle dichiarazioni di vari esponenti di FdI (e di qualcuno della Lega, che torna a competere sul segmento più a destra dell’elettorato) su fascismo e dintorni all’affaire De Angelis e al negazionismo della matrice neofascista della strage di Bologna del 2 agosto 1980.

C’è quello politico più propriamente detto, con la scoperta che sulle migrazioni «l’approccio securitario non basta»: già, specialmente al cospetto di un incremento degli sbarchi del 111 per cento in un anno (come certifica il Viminale) e nonostante una retorica elettoralmente alquanto redditizia fondata su blocchi e respingimenti.

C’è quello delle politiche sociali, dove su determinati temi – dal reddito di cittadinanza al salario minimo – stanno pure emergendo le tensioni tra la leadership meloniana e i gruppi eredi della «destra sociale».

E c’è quello, molto vasto, delle politiche economiche, nel quale le contraddizioni esplodono e risultano palesi, come ha mostrato l’ultimo decreto legge Asset e investimenti, contenente di tutto un po’. E, per l’appunto, in forma anche contraddittoria, oltre che onnicomprensiva, secondo quello stile dei «dl omnibus» che sollevano sempre alcune perplessità nel presidente della Repubblica, anche se vi appone la firma. Un decreto che da (pseudo)liberista, secondo le attese della vigilia, si è convertito in uno strumento di protezione delle corporazioni e di attacco propagandistico alle banche e alle compagnie aeree, fotografando delle questioni reali, ma proponendo soluzioni discutibili e inappropriate, o sostanzialmente irrealizzabili.

E, dunque, ecco il pasticciato provvedimento di tassazione degli extraprofitti delle banche, con le divergenze interne alla coalizione magicamente convertite in «problemi di metodo», come li ha liquidati la premier, e la seria possibilità di una catena di reazioni controproducenti, dalla sfiducia dei mercati agli istituti finanziari che scaricano i costi aggiuntivi sui risparmiatori. E, ancora, la narrazione sullo sviluppo tecnologico quale priorità che si traduce, assai più prosaicamente, nell’applaudire all’ipotesi di un surreale scontro «da gladiatori delle arti marziali» in qualche anfiteatro di età romana fra Elon Musk e Mark Zuckerberg e in una semplicistica idea di sovranità digitale (come già per quella alimentare).

Vale a dire la volontà del governo di entrare (fino al 20%) nel capitale della società della rete di Tim (Netco), esplicitata tramite la firma da parte del Mef di un «memorandum of understanding» con il fondo statunitense Kkr (e che richiede 2,6 miliardi di euro di denaro pubblico da reperire nella prossima legge di Bilancio). Un’ulteriore manifestazione dello statalismo che sta nel codice genetico di questa destra arrivata al potere, ben lontano dagli annunci delle «piccole (le ennesime incompiute e impossibili, ndr) rivoluzioni liberali». Interventi al di fuori delle regole di mercato che ribadiscono la concezione incline al corporativismo e alla ricerca del consenso à la carte presso le varie categorie (in primis quelle dei supporter storici, dai tassisti ai balneari).

Per adesso ha funzionato e le contraddizioni sono state tamponate, ma all’orizzonte di «Giorgia bicefala» si prospettano un «autunno caldo» senza adeguate risorse finanziarie e il complicato appuntamento delle Europee del 6-9 giugno 2024, il quale metterà a dura prova la sua ambizione di essere la «nuova Merkel». E da cui derivano gli ulteriori capovolgimenti e le frequenti oscillazioni senza mai giungere alla nascita di una destra conservatrice di stampo europeo a tutti gli effetti, come da lei vanamente promesso in ripetute occasioni. E si capisce il perché…