Il Movimento 5 Stelle che diventa istituzionale potrebbe illudere sulla fine di una stagione. Ma la frattura della classe politica con gli elettori non si è affatto sanata

Se il populismo è un virus, bisognerebbe registrare che forse a questo punto anch’esso sta mutando e che non è affatto detto che il vaccino pensato per estirparlo stia davvero mettendo al riparo il sistema politico dalla sua propagazione. Magari sotto altre spoglie.


Certo, il bilancio del populismo versione Cinque Stelle non appare dei più brillanti. Né dei più coerenti. Il MoVimento sembra aver smarrito nel giro di pochissimi anni la sua ragion d’essere. Fino a farsi allegramente contagiare dai difetti inoculati nel suo stesso organismo dai più coriacei nemici di una volta. Archiviata fin dagli albori della legislatura la pretesa di governare da soli, senza lasciarsi contaminare dai partiti altrui. Tramontato ogni vincolo di mandato. Nobilitati i cambi di casacca, purché utili alla causa della permanenza al potere. Recitato un certo numero di doppie verità. Oscurato il bagliore dello streaming a tutto vantaggio delle trattative più riservate. Delle parole d’ordine di qualche anno fa resta ormai ben poco. Come se le tecniche della “vecchia” politica (vecchia o eterna?) fossero diventate tutte a un tratto provvidenziali per la loro stessa causa.

S’intende, la politica ha sempre le sue regole e tende a vendicarsi di chi pretende di violarle troppo impunemente. Dunque, non sembra di grande costrutto rimpiangere l’ingenuità dei proclami degli inizi, né tantomeno lo spirito di palingenesi che li animava. Diciamo pure che certe evoluzioni erano nelle cose. Ma un po’ stupiscono la repentinità e la disinvoltura con cui si sono fatte strada. È lo zelo dei neofiti che, considerando la disinvoltura come un merito, finiscono quasi sempre per giudicare la prudenza e la misura come un difetto.


Ce n’è quanto basta per decretare la fine di una epopea - se mai tale è stata - che ora confluisce nell’alveo delle tradizioni di sempre della politica politicante. Le più nobili, o almeno quelle dettate da un certo senso di responsabilità - come l’apertura di credito verso il governo Draghi. E anche le meno nobili, con tutti i rovesciamenti di fronte che la cronaca di questa legislatura sta impietosamente annotando sul taccuino degli storici di domani.


Dunque, il populismo è finito? A redigere un onesto bilancio della crisi di governo appena conclusa verrebbe la tentazione di rispondere di sì. Non fosse altro perché sul capo delle icone principali del Movimento Cinque Stelle si riverberano ormai le immagini più tradizionali, e anche le più fruste, che la consuetudine partitocratica ha lungamente celebrato prima come il segno della propria virtù e poi come la coda dei propri vizi.


Ora, si può ritenere che il grillismo versione istituzionale, cultore della stabilità dei governi e della flessibilità delle forme politiche rappresenti finalmente l’attraversamento di un guado e il felice attestarsi di tutti loro (o quasi tutti) sulle rive del sistema. Oppure, all’opposto, lamentare che gli ardenti rivoluzionari di appena pochi anni fa siano diventati gli opachi conservatori di un palazzo che li ha ospitati e in qualche modo conformati a sé. In fondo, se i potenti di ieri e ieri l’altro vestivano panni populisti sperando di scansare l’onda che stava per travolgerli, c’è quasi una nemesi se ora i cultori della rivolta si ergono a paladini della governabilità.


E tuttavia l’impressione è che questa volta la politica abbia camminato più in fretta del paese. E che questa omologazione dei gruppi dirigenti non abbia affatto sanato le ferite e le fratture da cui il moto populista aveva preso le mosse. È vero, il M5S ha fatto propria la scelta europeista e ancor più la vocazione governativa. La grandissima parte dei suoi dirigenti e dei suoi parlamentari sembra sognare a occhi aperti di poter vestire i panni di quel notabilato politico che fino a pochissimo tempo fa era il bersaglio della loro indignazione. Vedi alle voci “Conte” e “Di Maio”, per citare due nomi che di questa trasformazione sembrano gli esempi più paradigmatici.


Resta il fatto che al fondo del paese e della sua crisi continuano invece ad accumularsi una drammatica quantità di motivi di risentimento. E se due, tre anni fa Beppe Grillo poteva rivendicare di aver offerto a quel risentimento un alveo lungo cui scorrere senza travolgere gli argini della civiltà democratica, ora invece tutto quel malessere non trova quasi più chi lo sappia interpretare e incanalare.


In altre parole, riesce difficile immaginare che si sia ripristinato l’ordine di una volta solo perché i populisti di ieri sono diventati i governativi di oggi. Tanto più se questo loro percorso si svolge con troppa disinvoltura e senza che mai vi sia da parte loro una revisione più profonda (e magari più faticosa) delle parole d’ordine con cui immaginavano di dare l’assalto alla Bastiglia di casa nostra.


Il fatto è che in fondo i populisti non sono riusciti a portare al governo nessun cambiamento di quel sistema che avevano minacciosamente promesso di aprire come una scatoletta di tonno. Ma di contro i loro antagonisti, diventati i loro comprensivi e perfino affettuosi alleati, non hanno cambiato quasi nessuna di quelle cattive abitudini che avevano ingenerato una protesta così diffusa. Le due reciproche comodità, chiamiamole così, si sono solo intrecciate l’una nell’altra dando a ognuno un vantaggio di corto respiro e illudendo tutti che la difficoltà maggiore fosse ormai alle spalle.


Temo che non sia così. E che piuttosto abbiamo perso un po’ tutti l’occasione di trarre da questa disputa, che sembrava scuotere le fondamenta del nostro sistema, il vantaggio di una riflessione su come ammodernare la nostra democrazia, rendere più trasparenti i suoi costumi e ricostruire il capitale di fiducia di cui ha bisogno.


Naturalmente, vedere i grillini farsi palazzo (sia pure a modo loro) e danzare al ritmo della musica d’altri tempi può ingenerare una ovvia soddisfazione presso chi riteneva che quelle loro antiche parole d’ordine fossero un non senso -e magari a lungo andare anche un pericolo. E ci si può perfino consolare se ora la manovra politica torna padrona dei nostri destini fino a radunare attorno alla stessa tavola i feroci antagonisti di appena qualche mese fa.

Così, la governabilità appare salva. Ma sotto la coltre degli accordi politici che annodano i destini dei grillini e di Draghi, e più ancora quelli dei partiti d’una volta e degli antipartiti della volta dopo, si nasconde un problema tuttora irrisolto. Che è quello del rapporto tra l’alto e il basso, il dentro e il fuori, della politica e della società dei nostri giorni.


Stiamo attenti al populismo che verrà. Ora ci illudiamo di essere entrati a pieno titolo nell’epoca del post-populismo. E ci piace pensare che una volta metabolizzato il grillismo la protesta popolare possa finalmente rientrare nei ranghi. Tutto questo è una possibilità. Ma non è affatto una certezza. E il rumore di fondo del paese ci avverte che l’argomento non è affatto archiviato. Siamo ancora dentro la transizione infinita tra un’Italia che non c’è più e un’altra Italia che non riesce ad esserci. Con tutta la sua buona volontà, il grillismo non è stato il passaggio che poteva condurre dall’una all’altra. Ma l’establishment che lo ha amorevolmente accudito fin qui farebbe bene a non cantare vittoria prima del tempo.
La strada verso il post-populismo, infatti, si annuncia ancora lunga.