L’Italia è in ritardo nella realizzazione delle opere da finanziare con i fondi europei. Obiettivi da cui dipende l’arrivo delle prossime rate. Ma possiamo recuperare, aumentando la spesa

«È matematico, è scientifico: alcuni interventi da qui al 30 giugno 2026 non possono essere realizzati». Parto da questa affermazione di qualche giorno fa di Raffaele Fitto, ministro per gli Affari Europei, le Politiche di Coesione e il Pnrr, per fare il punto sulla situazione nell’attuazione del Piano nazionale di Ripresa e Resilienza. Siamo in ritardo? Se siamo in ritardo, di chi è la colpa? E come funziona il piano?

 

Ogni sei mesi, da qui al 2026, la Commissione Europea verifica se certe condizioni sono state rispettate e, in caso di risposta affermativa, approva il trasferimento all’Italia di una ventina di miliardi di euro al semestre. Le condizioni sono di due tipi: ci sono le milestones (o “traguardi”) che prevalentemente riguardano l’approvazione di leggi, regolamenti, eccetera; e ci sono i targets (“obiettivi”) che invece riguardano la realizzazione di certe opere. I traguardi sono concentrati nei primi anni del programma (2021 e 2022), mentre gli obiettivi sono concentrati negli anni seguenti.

 

Quindi, per ora, per ricevere i finanziamenti europei, abbiamo dovuto soprattutto approvare atti legali e amministrativi, nella cui realizzazione siamo sempre stati bravissimi. Infatti, al momento, non abbiamo mancato nessuna scadenza. La Commissione Europea sta valutando se tutte le cose che avremmo dovuto fare entro il 2022 siano state fatte. A proposito, non credo ci saranno problemi: quindi, anche questa volta i soldi (19 miliardi) arriveranno.

 

Il problema riguarda la realizzazione delle opere, quegli obiettivi quantitativi da cui dipenderà l’arrivo dei finanziamenti nei prossimi anni. È a questi che si riferiva Fitto. Il problema non è immediato, nel senso che comunque la verifica del raggiungimento degli obiettivi avverrà solo in seguito. Ma si vede sin d’ora che siamo in ritardo. Il governo Draghi lo aveva riconosciuto: nel 2021 e nel 2022 abbiamo speso circa 20 miliardi in meno del previsto (40 miliardi).

 

Questa è l’eredità negativa lasciata, appunto, dal governo Draghi che deve essere recuperata nei restanti quattro anni del Pnrr. Sono 5 miliardi in più all’anno: non poco, ma neanche tantissimo. Il vero nodo, più che il ritardo cumulato tra 2021 e 2022, è il fatto che dal 2023 in poi sono stati fissati obiettivi molto ambiziosi. Nel 2023, infatti, l’obiettivo di spesa era di 36 miliardi, che, compreso il recupero, diventano 41: non è che faccia molta differenza. Stessa cosa per il 2024: dovevamo fare circa 45 miliardi, che ora diventerebbero 50 con il recupero.

 

Insomma, quando Fitto dice che non ce la faremo a spendere quanto dovremmo, non può certo dar la colpa ai ritardi accumulati dal precedente governo, che sono, in termini di euro, piccoli rispetto a quello che comunque avremmo dovuto fare. L’unica cosa che forse si può imputare al governo precedente è di aver fissato obiettivi alti. Ma se si voleva cambiare l’Italia occorreva essere ambiziosi nei risultati.

 

Rimbocchiamoci le maniche, dunque, e cerchiamo di fare il meglio possibile. Sono certo che l’Unione Europea sarà clemente nel valutare i risultati, se ci saremo impegnati. Per avere accesso alle risorse non devono essere raggiunti tutti gli obiettivi, uno per uno: verrà dato un giudizio complessivo. E allora proviamo a raggiungere quanto promesso, invece di impegnarci nel solito scaricabarile.