Non è bastato a Mario Draghi rivolgersi ai cittadini “disintermediando” i partiti

L’epilogo della crisi di governo “made in Giuseppe Conte” e poi rilanciata, su altre posizioni, dal destracentro si è rivelata assai istruttiva. E disvelatrice di tutta una serie di aspetti più o meno noti della politica italiana nella fase storica della crisi permanente.

 

Proprio per affrontare le emergenze che stanno determinando un cambiamento di paradigma nelle nostre società - la pandemia con la “messa a terra” del Pnrr e, più di recente, la guerra in Ucraina scatenata da Putin - il presidente della Repubblica Sergio Mattarella era stato il maieuta dell’esecutivo di (tendenziale) unità nazionale, il «Governo di alto profilo che non debba identificarsi con alcuna formula politica», affidato a una personalità autorevole, diventato una «riserva della Repubblica» (come si direbbe in Francia) anche in virtù del suo prestigio internazionale.

 

Tenere a bada il fascino irresistibile della campagna elettorale permanente per i partiti, però, è complicato, specialmente quando si tratta degli irrefrenabili animal spirits in tal senso dei leader populisti, che i tecnici non li soffrono in senso quasi antropologico. Perciò il capo dello Stato aveva scelto la strada della parlamentarizzazione della crisi, in modo che risultasse chiaro e trasparente agli occhi dell’opinione pubblica chi intendeva sfilarsi e sulla base di quali motivazioni, aggirando la cortina fumogena del politichese di cui è inopinatamente divenuto specialista il Movimento Cinque Stelle in versione contiana.

 

Il Colle ha dispiegato, insomma, ancora una volta quella moral suasion che, come si è potuto constatare, costituisce ben più di una forma soft power nell’arco delle presidenze Mattarella. E, difatti, portando alla caduta del governo questa crisi politicista, che si è grottescamente sommata alle tante emergenze in corso, ha svelato che il ceto politico è nudo. E ha anche prodotto una metamorfosi politica dell’ex banchiere centrale Mario Draghi, il quale, pure, ha palesato dei tratti da impolitico in alcuni passaggi, e - per dirla in termini un po’ grossier - in taluni momenti avrebbe dovuto comunicare di più.

 

Le lettere e le manifestazioni di sostegno dei giorni passati a Draghi avevano così plasticamente decostruito la narrazione su cui l’antipolitica - anche quella arrivata a governare (o, per meglio dire, a sgovernare) - ha prevalentemente costruito le sue fortune dagli anni di Tangentopoli in avanti. Dai sindaci agli infermieri, dalle categorie economiche ai lavoratori marittimi fino ai gruppi di cittadini autoconvocati (in stile riedizione, più trasversale politicamente, dei “girotondi” dei primi anni Duemila) non si può certo dire che una parte del “popolo” non abbia chiesto il ritorno di Draghi a palazzo Chigi.

 

E, d’altronde, tutti i cittadini sono componenti del popolo (oltre che dell’opinione pubblica), a dispetto della narrazione dicotomica e polarizzante su cui lucrano elettoralmente i partiti populisti quando premono l’acceleratore della propaganda. Aveva allora fatto la sua comparsa un Draghi «tecnopopulista», come ha sostenuto qualcuno dopo averlo sentito pronunciare nelle sue comunicazioni al Senato la frase «Sono qui perché gli italiani lo hanno chiesto»? Sebbene la categoria - combinazione di tecnocrazia e populismo - sia una di quelle che si sono imposte di recente nel dibattito accademico, ci pare più opportuno parlare di un Draghi «disintermediatore» nei confronti dei partiti. Alla ricerca del consenso di una maggioranza parlamentare, e dunque anche - nelle articolazioni della società civile - di quello dei cittadini, proprio perché il suo governo non era l’esito di un voto popolare diretto. Disintermediando, per l’appunto, nei confronti delle segreterie e dei leader. Ma non è bastato, poiché la politica politicante, attraverso i partiti «già-populisti-e-ritornati-tali», è insorta contro il tecnico-politico che aveva provato a disciplinarla. E, naturalmente, ha finito per prevalere.