Nella scorsa legislatura ci sono stati 499 cambi di casacca. Ora è partita la corsa verso Fratelli d’Italia. Protagonisti non solo politici di primo e secondo piano, ma anche manager. Che così vengono premiati

Parlamentare a Roma e vicesindaco a Palermo. Ci vuole un fisico bestiale, se non il miracolo della bilocazione. Doni che ha ritenuto di non possedere l’onorevole leghista Francesco Scoma. Il quale, declinando la proposta avanzata da Matteo Salvini alla vigilia della campagna elettorale palermitana, ha però voluto precisare: «La mia indisponibilità ad accettare la carica di vicesindaco nel ticket Forza Italia-Lega deriva dall’incompatibilità dei ruoli di deputato e di vicesindaco sancita dalla legge».

 

Sbagliava. Formalmente non esiste alcuna incompatibilità. Il legislatore è stato infatti così abile, quando si è trattato nel 2011 di mettere fine all’interminabile disputa sul conflitto dei ruoli politici nazionali e locali, da stabilire che l’incompatibilità nei Comuni con più di 15 mila abitanti esiste solo nel caso di «cariche elettive monocratiche». E siccome il vicesindaco, a differenza del sindaco, non è una carica elettiva monocratica, si può fare.

 

Perciò quando Maria Carolina Varchi, deputata di Fratelli d’Italia nonché amica di vecchia data di Giorgia Meloni, ha assunto il doppio incarico, nessuno ha sollevato il problema. A dispetto di evidenti questioni di opportunità, se non banalmente tecniche. Perché per fare contemporaneamente il vicesindaco e l’assessore al bilancio a Palermo e il capogruppo di FdI in commissione Giustizia alla Camera dei Deputati a Roma servirebbe il teletrasporto. Ancora non disponibile sul mercato.

 

Inoltre l’onorevole Varchi, componente dell’esecutivo nazionale di Fratelli d’Italia, non prova imbarazzo a condividere il governo della città siciliana in una giunta sostenuta da Marcello Dell’Utri, ex senatore già condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, con la Nuova Dc. Ovvero, il partito di Totò Cuffaro: l’ex presidente della Regione di cui chiedeva in modo veemente le dimissioni, da dirigente di Azione Giovani, all’epoca dell’inchiesta giudiziaria sfociata poi nella condanna per favoreggiamento a Cosa nostra.

 

A chi gli fa notare questa lieve incongruenza, replica intervistata da LiveSicilia: «Sia Cuffaro che Dell’Utri adesso sono fuori dalle istituzioni e si tratta di due cittadini che hanno pagato il loro debito con la giustizia». Per la serie che soltanto gli imbecilli non cambiano mai opinione.

 

I sostenitori di questo concetto, intendiamoci, non hanno torto. Ma quando si scopre che nella scorsa legislatura, calcola Openpolis, hanno cambiato casacca 299 fra deputati e senatori e alcuni di loro l’hanno cambiata anche ripetutamente per un totale di 449 giravolte, è assai difficile credere a un’epidemia di casi coscienza. Anche perché il fenomeno è inarrestabile. Non solo in parlamento, e sempre in direzione del potere.

 

Ne sa qualcosa l’ex sindaco di Napoli Luigi De Magistris. Che nell’estate del 2020 ha visto alcuni dei suoi fedelissimi confluire in liste organizzate per correre in soccorso del presidente della Regione Vincenzo De Luca, candidato per il secondo mandato e pressoché sicuro vincitore alle elezioni di settembre di quell’anno. Due di loro, Fulvio Frezza e Francesco Iovino, siedono ora nel consiglio regionale della Campania.

 

Tornando in Sicilia, è invece da registrare il passaggio a Forza Italia di Giancarlo Cancelleri, ex viceministro del governo di Mario Draghi e bandiera del Movimento Cinque Stelle alla Regione. «Non c’è una strada che ci può ricongiungere a Forza Italia. Abbiamo un dna completamente diverso», diceva un anno e mezzo fa. «Chi non cambia mai idea non cambia mai nulla. Ho sbagliato. Il partito di Berlusconi è una famiglia di valori», dice oggi.

 

Ma è una mosca bianca. I tempi in cui Forza Italia era la destinazione privilegiata delle crisi di coscienza politiche, però, sono ormai lontani. Dal partito di Berlusconi adesso invece si scappa. Certo non per saltare il fosso verso la sinistra in disarmo. Bensì per cercare rifugio nelle più solide schiere meloniane.

 

Il fuggi-fuggi dalla galassia forzista coinvolge anche gli insospettabili. Come l’ex presidente del Senato Marcello Pera. O l’ex pasionaria forzista Elisabetta Gardini. Oppure Lucio Malan, già punta di diamante del partito del Cavaliere ora capogruppo di Fratelli d’Italia in Senato. Ma con Giorgia Meloni si è imbarcato perfino Giulio Tremonti, il superministro dell’Economia dei governi di Berlusconi, che da tempo aveva imboccato molte altre strade, dal suo movimento 3L alla Lega, a Vittorio Sgarbi. Sempre ostruite, a differenza di questa.

 

E poi il trasloco a Fratelli d’Italia, in blocco, del plotone di Raffaele Fitto, uno dei tanti delfini di Berlusconi lasciato alla deriva. Ecco quindi Ignazio Zullo. Ed ecco Luciano Ciocchetti, uno degli irrequieti orfani democristiani perennemente alla ricerca di occasioni per sfuggire all’oblio. Le più varie: Ccd, Udc, Ncd, Forza Italia… Prima, ovviamente, di essere folgorati sulla via della Scrofa (la sede romana di Fratelli d’Italia). Tipo l’ex ministro dell’ultimo governo Berlusconi e democristiano a trazione integrale Gianfranco Rotondi; o l’ex assessore del Comune di Roma Alfredo Antoniozzi, figlio dell’ex ministro e pezzo da Novanta della Dc dei tempi che furono, Dario Antoniozzi.

 

Non dev’essere stato facile, per Giorgia Meloni, accogliere tante anime perse. Provenienti tanto dalle sponde forziste quanto da quelle, opposte, del Movimento Cinque Stelle. Ma per qualche ex grillino che ce l’ha fatta, per esempio quella Rachele Silvestri recentemente approdata all’onore delle cronache per una sua clamorosa lettera pubblicata dal Corriere della sera nella quale ha rivelato di essere stata «costretta a fare il test di paternità» per smentire voci secondo cui avrebbe figliato con un influente politico di FdI, altri non hanno avuto la medesima fortuna. L’ex deputata M5S Tiziana Drago, per esempio, ci contava eccome. Non avendo trovato posto nelle liste meloniane ha sbattuto la porta e se n’è andata nell’Udc.

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Per non parlare dei manager. Roberto Cingolani, ex ministro del governo di Mario Draghi che piaceva tanto ai Cinque Stelle, è stato nominato consigliere per l’energia di Giorgia Meloni e quindi amministratore delegato di Leonardo. Facendo sobbalzare chi ricorda come la legge vieti per un anno ai ministri di assumere incarichi pubblici confliggenti con il passato mandato ministeriale. E Stefano Donnarumma? Alla vigilia delle elezioni provocò scalpore la sua apparizione alla conferenza programmatica di Fratelli d’Italia. Per anni era stato infatti coccolato dai grillini. Prima amministratore delegato dell’Acea, voluto dalla ex sindaca di Roma Virginia Raggi; poi promosso a Terna dal secondo governo di Giuseppe Conte. Giorgia Meloni l’avrebbe voluto spedire all’Enel, ma deve ripiegare su una società della galassia Cassa Depositi e Prestiti. Per ora.

 

Non sempre, tuttavia, i cambi di rotta sono repentini. C’è chi ha saltato la barricata solo dopo una lunga traversata nel deserto. Guardate Luigi Di Maio. Nel 2014 l’ex leader grillino plaudiva all’alleanza del suo Movimento in Europa con il nemico dell’Unione Nigel Farage. Dieci anni dopo, eccolo inviato speciale dell’Unione per il Medio Oriente. Perché solo i morti e gli stupidi, si dice, non cambiano mai opinione.