Cede i suoi testi ad altri, che li firmano e li portano al successo. E spesso al Festival. Ma l’impegno è di rimanere sempre nell’ombra. «A volte sento i presunti cantautori raccontare di come hanno scritto i testi fatti da me e mi viene da ridere. All’Ariston va in scena il trionfo dell’apparenza»

«Capita che sto ascoltando la radio, in macchina, e passa una canzone che ho scritto io. Allora mi sbrigo a cambiare stazione». C’è un paroliere fuori dalle luci di Sanremo. Ce ne sono più di uno, in realtà, ma lui è disposto a raccontare dall’ombra. «Capita anche di leggere cosa dicono i cantautori nelle interviste, a proposito di testi miei. Perché la curiosità è inevitabile. E capita che dicano: “Questa canzone l’ho scritta in un momento strano della mia vita”...». Il Paroliere Fantasma sorride, a ridosso del 73° Festival della canzone italiana.

 

Ha un nome sconosciuto al grande pubblico, ma è autore di testi che il grande pubblico conosce magari a memoria. Quel nome non lo faremo, perché la segretezza è una condizione chiave nel suo mestiere. Non viene annunciato dal palco di Sanremo, non compare nel sottopancia, quando chi canta aspetta la fine dell’applauso per cominciare a esibirsi. Ci sono altri nomi a firmare, anche famosi. Eppure è lui il vero autore. Per quanto, vero e falso ancora una volta non sono categorie praticabili.

 

Il Paroliere Fantasma mette insieme parole che a volte hanno successo, in ogni caso lontano da lui e senza che a lui siano riconducibili. Non ci dirà quali canzoni ha scritto in questi anni («Non l’ho mai detto neanche a mia madre»). Non ci dirà quale brano, nell’imminente edizione del festival, ha raggiunto la finale. Farà di più: porterà L’Espresso nelle cucine in cui si prepara il grande spettacolo della musica italiana.

 

«Ho iniziato cinque anni fa. Per gioco, anche se con la paura che fosse qualcosa di illegale. Alcuni cantautori delle mie parti hanno letto testi che avevo scritto e mi hanno incoraggiato. Allora ne ho proposto qualcuno a un’agente, eravamo in contatto perché l’avevo intervistata tempo prima». Il Paroliere Fantasma scrive libri e collabora con i giornali, nella vita emersa, visibile. E proviene dalla musica: «Sono un pianista, scrivo canzoni fin dall’adolescenza. Ho anche partecipato alle selezioni di Sanremo Giovani, molto tempo fa. Mi sono fatto diciotto anni di piano-bar, quindi il festival dovevo seguirlo: nei pub ti chiedono quelle canzoni già dal giorno dopo. E poi Sanremo finisce a febbraio, a maggio prendono il via i matrimoni e i pezzi devi saperli. Scoprire, in questi anni, che il pezzo che faceva piangere gli sposi non era del suo autore, ma di un ghostwriter... Ti dici: come cazzo è possibile?».

 

La stagionalità è un fattore importante. Tra settembre e ottobre, in tempo per le selezioni di Sanremo, il Paroliere Fantasma invia i suoi lavori. Tre alla volta, ogni anno. «L’agente scova autori per canzoni, autori che accettano di restare nell’anonimato, e sottopone i loro testi alle produzioni. Così ha fatto per me, ha mandato le mie parole a chi è dietro alle più grandi manifestazioni. Mi ha colpito questo, che ha voluto iniziare da subito in grande».

 

Ci parla di un sistema unico, in cui oltre a Sanremo ci sono i grandi talent televisivi, gli album, i tormentoni estivi («Magari mi chiedono dieci parole da inserire nella hit di un deejay»). Ovunque gli stessi meccanismi. La fase creativa, però, mantiene una dimensione personale, isolata. Se c’è qualcosa di autentico in questa storia, bisogna cercare lì. «Non ricevo indicazioni sui temi o su altro. So che l’estate è un tema che piace, per esempio, ma scrivo di quello che mi va. Non saprei fare in un altro modo, mi bloccherei».

 

All’inizio di dicembre, il Paroliere Fantasma ha saputo che uno dei suoi testi ha passato le selezioni per Sanremo 2023. Verrà interpretato sul palco dell’Ariston. Da chi, lui lo saprà in un secondo momento. «La canzone viene abbinata all’artista dalle produzioni. Indirizzano loro, a seconda degli ospiti che hanno. Io lo scopro solo poco prima dell’inizio del festival, quando vengono pubblicati i testi in gara: vado in edicola, compro Tv Sorrisi e Canzoni e vedo a chi è stato assegnato il mio».

 

A quel punto il Paroliere Fantasma e le parole che ha scritto saranno, apparentemente, slegati. «Studio con attenzione le piccole modifiche che sono state fatte al testo. Quasi sempre una frase, una parola qua e là, non un periodo intero. Sono cambiamenti legati alle ritmiche, agli arrangiamenti». Così come, nel momento in cui l’artista di turno aspetterà sul palco la fine dell’applauso per cominciare a esibirsi, il Paroliere Fantasma sarà apparentemente uno spettatore qualunque davanti alla tv. Nonostante quel brano sia fatto di parole sue.

 

È un paradosso che vale per ogni campo d’applicazione del ghostwriting: una distanza improvvisa separa l’autore dall’opera (che sia un romanzo, una sceneggiatura, una canzone). Il film “The Ghost Writer” di Roman Polanski, nel 2010, mostrava la tecnica di uno scrittore al servizio delle memorie di un primo ministro. È più difficile immaginare il ricorso a un autore occulto per una cosa legata alla stretta creatività, come il testo di una canzone. Forse perché è diffusa l’idea che il gesto creativo riguardi pochissimo la tecnica e sia invece uno slancio, immediato come i sentimenti che traduce. È certo, però, che il rapporto tra creatività e inautenticità può creare un cortocircuito.

 

Perché fare il ghostwriter, se non per soldi? Il Paroliere Fantasma non considera altri motivi. Ed è nei soldi l’origine dell’unica frustrazione che ammette di provare in questo mestiere. «Vengo pagato dalle produzioni tramite l’agente, una parte che di volta in volta si pattuisce. Non ricevo percentuali sulle vendite. Un mio testo ha vinto un premio importantissimo: ho ricevuto 4.800 euro, la canzone in pochi mesi ha guadagnato milioni di euro».

 

È una regola di questo gioco, sta nei patti. Il ghostwriter svolge un lavoro in cambio di un compenso, qualcun altro casomai si arricchirà. «Se non scrivessi anche altro, come invece faccio con libri e articoli, di sicuro non scriverei testi per la musica. L’anonimato mi peserebbe e sentirei di disconoscere il valore della scrittura, di non rispettarla. Invece, così rimane un gioco. E giocarci è un lusso».

 

Un altro lusso lo vede nell’essere riconosciuto attraverso la scrittura. Il Paroliere Fantasma si attiene al segreto sulle canzoni che hanno le sue parole, ma non nasconde l’attività di ghostwriter alle persone care. E anche quest’anno ci sarà chi, di fronte ai brani in concorso al festival, proverà a riconoscere la sua sensibilità. «Sì, ogni tanto mi beccano», ride. Anche quest’anno, nel caso, non potrà confermare né smentire. La soddisfazione correrà invisibile. Uno dei maggiori crucci di chi scrive, d’altronde, è che la sua voce sia anonima, impersonale. Forse per questo il ghostwriting richiede una maturità stilistica, sparire è per chi ha già una consistenza.

 

E gli altri parolieri fantasma? Esiste una rete, una solidarietà, un confronto, nell’ombra? «Ne ho conosciuti diversi. Per me una delle rivelazioni più sconvolgenti è stata scoprire che alcuni sono giovanissimi, adolescenti, magari usati per accorciare la distanza dal target. Per quanto, lo sapevo già che i ragazzi spesso sanno scrivere meglio di noi adulti. In ogni caso, è difficile che venga fuori un’amicizia. C’è una specie di titubanza: il timore di rubarsi il mestiere, di farsi sfuggire qualcosa di delicato». Si fa l’abitudine a stare nascosti, a non esporsi, e in qualche modo l’ombra protegge. È un circuito in cui non bisogna apparire.

 

Contemporaneamente, le serate della finale sono un evento mondano di tale portata che non esserci può equivalere, per qualcuno, a non essere. «Ci vanno tutti, a Sanremo, nei giorni del festival. Ma io finora non sono andato e anche quest’anno non andrò. Un po’ per paura. Va ricordato sempre che intorno al mio lavoro c’è una grande segretezza. È un gioco, la prima impressione che ho avuto era giusta, però è un gioco serio». Non andrà di persona, sarà uno spettatore qualunque davanti alla tv. Apparentemente, come ha fatto dall’infanzia e fino a qualche anno fa.

 

«L’Ariston sarà pieno, ma molto sarà falso. Un po’ come quando una figura istituzionale visita una scuola e allora viene tirato tutto a lucido. Il teatro pieno di questo febbraio non sarà, in fondo, dissimile dal teatro vuoto per la pandemia nell’edizione 2021». I cantanti in gara scenderanno in platea, si avvicineranno alle telecamere, mostrando di avvicinarsi al pubblico, di abbattere la distanza. Ma sarà una costruzione, come pure la gran parte dei momenti a prima vista spontanei. Effetti di realtà.

 

Il Paroliere Fantasma la mette giù lucidamente, ma senza cinismo: «Sanremo è un’industria dello spettacolo, una holding che dà lavoro a migliaia di persone. È un sistema basato sull’apparenza e non ha nulla di improvvisato. È come il metateatro, il metacinema. Io, certo, lo seguirò sempre, per tutta la vita, ma ormai non me lo godo più tanto. Mi sento preso per il culo, ho perso quell’ingenuità bambina che avevo. Scoprire che certe canzoni firmate da autentici miti, canzoni che amo, miei punti di riferimento, sono state scritte da altri...scoprire che non sono emozioni provate da quell’artista è stato uno shock. E allora ho messo in discussione tutto. Quello che ascolto è vero o è falso? Dubito di tutto, da quando scrivo testi per la musica. Mi sono creato una corazza rispetto al mondo».

 

Si sente un avversativo ad accompagnare la frase. In effetti il Paroliere Fantasma, dopo una pausa, dice: «Forse è tutto falso, però quella falsità produce comunque emozioni. Per questo non mi sembra un lavoro sporco: perché è legato a sentimenti veri che provo mentre scrivo. E dà emozioni vere a chi ascolta. Niente vale quanto l’emozione che viene da una canzone, no? Per fortuna esistono le canzoni... A volte questi artisti neanche sanno chi sono i loro ghostwriter, chi c’è dietro alle loro parole».

 

Dal 7 all’11 febbraio lui starà, come il resto del pubblico televisivo, a guardare dall’esterno il festival. «Spero che il mio testo vada a un interprete che mi piace, questo sì. Spero sempre che non abbiano assegnato le mie emozioni a qualcuno che non stimo».