Tre strade tra Duomo e Ponte Vecchio? Sì. Ma c'è anche il Museo Bardini con il suo splendido giardino. E poi: il Cimitero degli inglesi e Villa Stibbert. Guida sorprendente a luoghi poco frequentati dai turisti

Firenze è una sineddoche. Tre strade per il tutto. Esserci nati, viverci, è quasi un paradosso. La gente fatica a credere che qualcuno ci nasca, ci viva, perché Firenze, appunto, è quelle tre strade. Il triangolo d'oro compreso tra il Duomo, Santa Croce e gli Uffizi. Persino l'altro lato del fiume, il diladdarno come diciamo noi, è escluso dal conto. Tre strade brulicanti di turisti instupiditi e stracolme di bellezza. Ma non è vero, ovvio. Firenze è molte altre cose.

Io per esempio quando penso a dove nasce la città, qual è il punto in cui potrebbe essere emersa dal nulla e al quale potrebbe aggrapparsi per non essere trascinata via dalla folla, penso alla collina ovale dalla quale spunta il Cimitero degli inglesi. Forse anche per quella forma strana, che la imparenta al misterioso quadro di Böcklin, "L'isola dei morti". Si dice che il pittore svizzero abbia preso ispirazione per la sua opera proprio da questo eccentrico monumento. Di certo qui è sepolta sua figlia, morta a Firenze a soli sette mesi, nel 1877. La sua architettura è opera di Michelangelo, e faceva parte di una serie di accorgimenti per difendere la città. Ma da tempo ha solo una funzione di spartitraffico per chi corre sui viali di circonvallazione accanto a piazza Donatello, sulla quale affacciano studi di pittori dalle enormi vetrate.

Il cimitero è curato con amore da una donna, Julia Bolton Holloway, inglese. Ex insegnante di letteratura negli Stati Uniti, ha lasciato tutto e si è fatta suora. Si è trasferita a Firenze, e ha adottato il cimitero. Ha allestito una libreria, ha aperto un sito Internet e fa quel che può per arginare la rovina. Organizza cose, raccoglie denaro, tiene sveglia l'attenzione. Nel cimitero riposano svizzeri (molti commercianti e tra loro Viesseux, fondatore del Gabinetto Letterario) e alcuni di quelli inglesi, o americani, che nell'Ottocento sceglievano l'Italia dopo essersene invaghiti nell'obbligatorio Grand Tour. Elizabeth Barret Browning arrivò insieme al marito, Robert, poeta a sua volta. Vissero in quella casa Guidi, dietro piazza San Felice, che oggi è diventata un museo. La tomba di Elizabeth, nel Cimitero degli inglesi, è una delle più visitate, e amate.

Arnold Böcklin, il pittore, è invece sepolto al cimitero degli Allori, in via Senese. Vicino, tra gli altri, a Oriana Fallaci e Frederick Stibbert. Quest'ultimo era nato a Firenze, figlio di un militare inglese e una bella fiorentina di nome Giulia Cafaggi, e aveva studiato a Cambridge. Dopo la laurea, tornato in Italia, compra una bellissima villa alle spalle della via Bolognese, in una zona chiamata Montughi, e la trasforma piano piano in uno dei luoghi più piacevoli dove passare un pomeriggio in primavera, ovvero il Museo Stibbert.

Noi bambini fiorentini lo conosciamo bene: ci portavano spesso in gita perché qui era facile ipnotizzarci. Scalpitavamo ovunque, tranne che in queste sale, stracolme di soldati, armi, oggetti misteriosi. Frederick Stibbert aveva infatti proseguito la carriera del padre, ed era stato anche soldato con Garibaldi. Ma era soprattutto un collezionista e, divenuto erede in quanto unico figlio maschio, un collezionista molto ricco. Si mise a girare il mondo e non si sposò mai. Nella villa, oggi museo, visse tutta la vita con la madre e le sorelle Sophronia ed Erminia.

Entrando nella prima sala si ha la sensazione di trovarsi davanti a una riproduzione in miniatura della schiera di guerrieri di terracotta cinesi, quelli che stavano di guardia alla tomba dell'imperatore Qin Shi Huang. Uomini a cavallo, bardati con eleganza e precisione, immobili in una sala che sembra contenerli a stento. E ogni volta lo stesso stupido pensiero mi distrae: quanto erano piccoli gli uomini un tempo. Quanto doveva essere minuscolo Cesare, o Dante Alighieri e forse persino Gengis Khan. Le loro armi, i loro scudi le maglie e i calzari di ferro non ci entrerebbero mai. Quanto era alto Francesco I de Medici, mi domando davanti al bel ritratto di Angelo Allori detto il Bronzino? La visita del museo prosegue per argomenti e epoche, luoghi del mondo e specialità. C'è una sala solo per le carabine, decorate come gioielli, e una stanza per quelle splendide armature giapponesi dei film di Kurosawa. Nella veranda, vedo il sole tramontare. Il giardino del Museo Stibbert è pieno di gatti e ombroso. Perfetto per questi giorni arroventati. C'è persino un laghetto, sul quale affaccia un misterioso tempio egiziano, le cui porte senza porta alludono senz'altro a qualche passaggio esistenziale. Divinità capricciose, riti di pulizia dell'anima: due piccole sfingi e due statue di morti lo vegliano tra le fronde freschissime.

Sento che adesso dovrei consigliarvi qualcosa incluso nel triangolo che dicevamo, spingervi a buttarvi proprio al centro della questione per chiudere la giornata. Potrei invogliarvi dicendo che ormai le macchine sono state bandite, e che passeggiare sotto il Duomo è diventata un'esperienza di mistica comunione con l'arte. Ma proprio non ci riesco, mi piange il cuore a vedervi fronteggiare l'esercito cinese stavolta in carne e ossa. E allora mi ricordo di un posto che sta a metà, in perfetto equilibrio tra la corvée turistica e il godimento fannullone. E in più si trova in una zona di Firenze talmente piacevole che anche la più riottosa delle indigene (sto parlando di me) deve cedere le armi: costa San Giorgio, piazza Pitti, a pochi passi da quel diladdarno amatissimo detto San Frediano. Dall'altro lato però. Lasciato alle spalle il Ponte Vecchio bisogna infatti girare a sinistra, per raggiungere il museo Bardini.

Stefano Bardini, antiquario noto per il carattere rognosetto, comprò nel 1881 il vecchio convento di San Gregorio della Pace. Lo trasformò in una galleria e ci mise dentro le opere che aveva collezionato negli anni. Una raccolta di sculture dipinti e oggetti dall'antichità all'Ottocento, con un'attenzione particolare al Medioevo e il Rinascimento. Interessante e abbastanza raccolto da non creare stordimento, il museo Bardini ha una specialità, un lato B. Nascosto e imprevedibile dalla strada, c'è un giardino all'italiana che si arrampica fin sotto il Forte Belvedere. Restaurato da poco, il giardino del Museo Bardini è il vero antidoto per chi (sto ancora parlando di me) scalpita di fronte all'isteria del capolavoro. Andateci, davvero. E fate in modo di aver abbastanza tempo per fermarvi a bere un caffè, o soltanto a bocca aperta a guardare il tetto, la chiesa di Santa Croce che si offre, bellissima, di sbieco.

Ci sono tornata da poco, ottusa nella mia convinzione che a Firenze non ci fossero spazi verdi. E che per questo motivo la città soffrisse di una specie di sovraffollamento lessicale, che la costringeva alla balbuzie. Mi domando spesso perché Firenze sia così difficile da raccontare. Non è solo colpa del palinsesto sul quale è impossibile poggiare un altro strato, né può essere solo la forza del passato ad azzittirla. Ho sempre pensato che fosse una questione di respiro. Ma forse, guardandola da lontano, faccio lo stesso errore di tutti, quello che dicevo all'inizio, la sineddoche. La contraggo, la metto sottovuoto, le sfilo gli spazi vuoti, la punteggiatura.
Sono andata al giardino del Museo Bardini e ho preso atto della mia miopia. Se c'è qualcosa su cui Firenze è davvero imbattibile, sono gli scorci, le prospettive, la composizione. E soltando allontanandomi di qualche passo, mi sono resa conto che, a poche centinaia di metri dal Duomo, c'è una specie di enorme isola di verde. Perché il giardino del museo Bardini confina perfettamente con quello di Boboli. Come il conte Cosimo Piovasco di Rondò, si potrebbe di albero in albero arrivare fino in cima, fino a Porta Romana, fino a quella buffa statua con la statua in testa, indecifrabile enigma della contemporaneità. Invece resto dentro.

Penso a quando eravamo adolescenti e venivamo qui a darci i primi baci, nella grotta, dietro la Limonaia, infrattati in cima in cima, lontani dal Palazzo Pitti il più possibile. La bellezza è un privilegio? Temo di sì, temo che alla fine qualcosa resti negli occhi di chi è cresciuto sotto questo dolcissimo assedio. Direi una crostosa abitudine al disincanto. Un'altra volta, quando il tempo e la distanza avranno eroso un altro piccolo mattoncino del mio castello di intolleranza, racconterò anche di quello che succede là, al centro, nella sineddoche. Un'altra volta, con calma.