La crisi di leader e coalizioni è arrivata a un punto tale da non trovare più in se stessa le condizioni per venirne fuori. Parliamo quindi dei nuovi assetti e soprattutto dei necessari contrappesi

Un sistema avvitato nella sua crisi ha cercato rifugio nella rielezione di Mattarella. E il presidente meno propenso a esercitare una sua personale regia politica, meno tentato di dar voce a se stesso e al proprio retaggio, meno vicino a qualunque deriva verso il presidenzialismo si trova così ora a dover reggere sulle sue spalle tutte le rovine che la corsa alla sua successione aveva prodotto: la scomparsa dei partiti, il declino dei leader, lo sfarinarsi delle coalizioni, l’affanno del governo. Insomma tutti quegli indicatori che svelano la crisi della democrazia intesa soprattutto come rappresentanza.

 

Mattarella è diventato così il re taumaturgo della politica italiana. E per quanto egli sia schivo e misurato e diffidente verso l’eccesso delle aspettative, è come se le popolazioni politiche del nostro tempo confidassero che l’imposizione delle sue mani sulle spalle di tutti noi possa guarire i nostri mali. Giusto al modo che raccontava Marc Bloch a proposito dei sovrani medievali.

 

Ora è chiaro però che questa attesa rivela qualcosa di più profondo e forse anche di più inquietante di una momentanea superstizione. Rivela cioè che la crisi di partiti, leader e coalizioni è arrivata a un punto tale da non trovare più in se stessa le condizioni per venirne fuori. A meno di non illudersi come il barone di Munchausen che il cavallo si possa tirare su da solo afferrandosi per la propria criniera. Cosa manifestamente impossibile.

 

Il fatto è che una crisi politica che diventa istituzionale non si accontenta più delle possibilità di rigenerazione proprie della politica. Richiede una terapia istituzionale. Per quanto si possa fare voti perché i partiti ritrovino se stessi, perché ne sortiscano leader migliori di quelli prodotti fin qui, perché la campagna elettorale li rimetta in sintonia con le persone a cui chiedono il voto, per quanto si possa confidare in tutti questi (improbabili) prodigi, ormai la questione è diventata un’altra. E cioè quale delle nostre regole fondamentali mettere in questione.

 

Personalmente faccio parte di un mondo che ha in gran dispetto la deriva leaderistica che ha preso piede in questi anni. Sono affezionato ai partitoni un po’ anonimi di un tempo, quando il capo contava fino a un certo punto. E tanto più affezionato a quel faticoso lavoro di cesello che usava all’epoca, tra governi che andavano e venivano, trattative infinite, un continuo farsi e disfarsi di equilibri che avevano bisogno di monitorare attimo per attimo l’evoluzione dei rapporti di forza e il modificarsi delle agende. Quel mondo aveva dalla sua, a giustificazione di certi suoi peccati, la virtù di un capitale di fiducia costruito tra i suoi esponenti e soprattutto verso i suoi elettori.

 

Per questo ho sempre guardato con diffidenza verso le leadership troppo personali che vanno di moda da un quarto di secolo a questa parte. E con diffidenza ancora maggiore verso quel diffuso sentimento di opinione pubblica che reclama il presidenzialismo come catarsi di tutti i nostri difetti di sistema. In linea di principio vorrei tanto resistere su quella trincea. Ma mi chiedo se quella trincea nel frattempo non sia stata travolta dall’incapacità della politica, tutta la politica, di dare un senso alla sua attuale configurazione.

 

Un presidente della Repubblica rieletto suo malgrado come salvatore della patria e un presidente del Consiglio vissuto quasi contemporaneamente come un monumento alla virtù e come un idolo da sacrificare sono due figure che sembrano dirci che il nostro destino è quello di un presidenzialismo mascherato. Del tutto involontario. Ma tenace nel riproporsi malgrado la fortuna che ci capita oggi di avere a disposizione - almeno per questa volta - figure ben lontane da ogni traccia di vocazione all’eccessiva personificazione del potere.

 

Temo invece che nei prossimi mesi saremo chiamati a confrontarci sul tema del presidenzialismo. E ancor più sul tema decisivo dei contrappesi che gli darebbero senso e valore: un Parlamento da rafforzare, partiti e coalizioni da ripensare, nuovi leader da far emergere. Il sistema di prima infatti ha dato il meglio e soprattutto il peggio di sé. È probabile che a questo punto non abbia più molto altro da dare.