Finita la luna di miele dei primi mesi, iniziata la corsa per le Europee (e senza Berlusconi), la maggioranza comincia a ballare. Colpa del taglio dei parlamentari, eredità dei Cinque stelle. Ma anche di numeri che si fanno più sottili. Il caso del Def e quello del Mes

«Questo è solo l’antipasto». Il senatore di Forza Italia Claudio Lotito, padrone della Lazio e di uno dei due seggi molisani a Palazzo Madama, ha smentito di averla pronunciata, eppure la frase, come accade alla sapienza che emana dalle tappezzerie damascate di certi corridoi della Camera Alta, è perfetta a fotografare il momento della maggioranza e del governo guidato da Giorgia Meloni. Che comincia a inciampare nel groviglio dei numeri parlamentari proprio in corrispondenza di una congiunzione particolare: superata la luna di miele e la tensione ideale dei primi mesi, il centrodestra si avvia alla lunga marcia verso le Europee del 2024, in un orizzonte politico per la prima volta dopo trent’anni privo del peso specifico rappresentato da Silvio Berlusconi e dal suo mondo. Proprio in questo crocevia comincia venire in chiaro qualcosa che finora era rimasto abbastanza nascosto. E che è forse l’unico lascito dei Cinque Stelle destinato a restare (visto che il reddito di cittadinanza è in corso di smantellamento): un Parlamento rimpicciolito, dagli equilibri ancora più fragili di prima.

 

L’incidente più vicino - appunto solo l’antipasto - è stato in commissione Bilancio, mercoledì 20 giugno, dove i partiti che sostengono il governo di Giorgia Meloni sono finiti a gambe all’aria in una votazione sul parere a un pacchetto di emendamenti al decreto Lavoro, uno di quelli sui quali la premier teneva a fare bella figura (non per niente l’aveva battezzato “decreto 1° maggio”). Nulla di grave: un incidentuccio, due senatori assenti e lo smacco finale, comunque non un bellissimo spettacolo. Era stato ancora peggio il 27 aprile, quando la coalizione di centrodestra era andata sotto in Aula alla Camera al momento di votare lo scostamento di bilancio, ossia la relazione per il ricorso all’indebitamento collegata al Def. Sarebbe servita la maggioranza assoluta, 201 voti favorevoli: si è arrivati a 195, ne sono mancati 6. Un risultato salutato da Fabio Rampelli con un incredulo: «La Camera respinge», cui sono seguiti 26 secondi di silenzio dell’intero emiciclo, il tempo minimo per riattaccare la mandibola alla mascella e comprendere una situazione che si stava verificando per la prima volta nella storia repubblicana («sono senza parole», scrisse via whatsapp anche la premier, da Londra, procurando in taluni parlamentari di Fratelli d’Italia una crisi di pianto).

 

Era aprile, nel frattempo a primato si è aggiunto primato: la maggioranza che siede in Parlamento, la più a destra dal 1945 a oggi, ha realizzato la settimana scorsa il primo Aventino al contrario della Storia d’Italia. Quello originale fu messo in atto dai deputati dell’opposizione nel giugno 1924, abbandonando l’aula dopo la scomparsa di Giacomo Matteotti; 99 anni dopo, sono stati invece i deputati della maggioranza a lasciare il presidente della commissione Esteri Giulio Tremonti solo soletto, nelle grinfie dell’opposizione. E del Mes.

[[ge:rep-locali:espresso:406505430]]

Sviste, nervosismi, primi segnali. Che svelano una situazione inedita, da sommare alle novità sin qui affrontate (la prima donna a guidare Palazzo Chigi, la prima volta per un’erede del Msi-An). C’è infatti un altro debutto assoluto: questo è il primo Parlamento dimezzato. Ecco l’eredità dei Cinque Stelle. Non più 630 deputati e 315 senatori, ma 400 deputati e 200 senatori. Qualcosa che ha cambiato profondamente il lavoro dei Parlamentari, costringendoli ad esempio ad accollarsi due o tre commissioni ciascuno (con relativo peggioramento del livello di approfondimento e gestione di ogni dossier). Qualcosa che ha ristretto i margini di manovra dei gruppi politici, in specie della maggioranza, costringendo a un maggior allineamento da semplice schiacciabottoni. E che ha portato tutti ad occuparsi ancora di più, almeno in teoria, della questione dei numeri.

 

Calando il totale dei parlamentari tutti, infatti, il margine è adesso più ristretto. Rimpicciolito. Bastano sei voti per andare sotto sullo scostamento di bilancio, basta l’assenza di due senatori per bloccare i lavori di una commissione. Basta insomma pochissimo per mandare a gambe all’aria la maggioranza: ci fosse una opposizione unitaria e compatta, sarebbe un circo spettacolare tutti i giorni.

 

Vale su questo punto, come simbolo, la prima votazione che si è svolta al Senato in questa legislatura, quella per l’elezione del presidente Ignazio La Russa: i voti di Forza Italia, 17, sono stati sostituiti in parte da quelli del Terzo polo (10), in parte da minimi apporti delle altre forze di opposizione (Pd incluso). Diciassette voti sono pochi, ma in questo Parlamento anche tanti. Per intendersi sugli ordini di grandezza, basti dire che il differenziale di voti a Palazzo Madama - se escludiamo i sei senatori a vita i quali hanno proporzionalmente assai più peso di prima - è di circa 35 voti. E il massimo dei voti su cui può contare il governo Meloni è 115 (Fdi, Fi, Lega, Noi moderati), un totale raggiunto soltanto nel giorno della fiducia al governo. A quelle vette la maggioranza non è arrivata più. Anzi, mediamente, il totale raggiunto dai voti di fiducia, circa 103 sì, è già tanto, rispetto a certe approvazioni come ad esempio il decreto Rave, che fu licenziato dal Senato a dicembre con soli 92 sì (75 i no), con un margine di soli 8 voti in più rispetto alla maggioranza minima richiesta.

 

Il fenomeno è ancora più visibile alla Camera: nei voti di fiducia l’alleanza di centrodestra supera sempre l’asticella della maggioranza assoluta (201) ma resta molto sotto quando si tratta invece di dare il voto finale al provvedimento. E il differenziale è in aumento. Il decreto legge sulla Pubblica amministrazione, votato all’inizio di giugno, ha avuto ad esempio numeri molto simili a quelli del decreto Ponte, di un mese prima: 203 voti dalla maggioranza per la fiducia, scesi a 179 nella votazione finale del provvedimento (per il Ponte erano stati rispettivamente 206 e 182).

 

È il segno di una tensione unitaria calante, dentro la coalizione che sostiene il governo, e che certo non migliorerà: nei prossimi mesi si farà sentire sempre più la campagna elettorale per le Europee, e quindi la battaglia tra i capi partito Giorgia Meloni e Matteo Salvini per spartirsi il bottino dei voti, in particolare quelli in uscita da Forza Italia.

 

«Una delle maggiori insidie che il governo si troverà di fronte non sarà, almeno all’inizio, la possibile fragilità della tenuta politica, ma quella dei numeri nelle commissioni e nelle assemblee», aveva profetizzato a settembre su Mf uno che conosce la materia, l’ex deputato Simone Baldelli, per anni delegato d’aula di Forza Italia, cioè addetto in gergo a fare «la frusta», a controllare e gestire le presenze e i voti dei parlamentari (una competenza che non dev’essere tenuta in gran conto nei partiti: anche il delegato d’aula dem, Emanuele Fiano, è rimasto fuori dal Parlamento in questo giro).

 

È cambiata molto, anche da questo punto di vista, l’attività parlamentare. Una scarsa vitalità d’iniziativa politica individuale e di microgruppo, soprattutto quella di stampo piratesco, che si traduce in un numero spaventosamente piccolo di attività meramente parlamentare. Fin qui, quattro quinti dei provvedimenti approvati in Parlamento sono di origine governativa, e per lo più si tratta di conversioni di decreti legge, specialità che il governo Meloni sforna a ritmi record (4,2 al mese, è la prima in classifica degli ultimi vent’anni, secondo le stime di Openpolis). Certo, la tendenza è pluri-decennale ma tutti gli indicatori raccontano un ulteriore peggioramento in corso. Come se nel tempo, quel Parlamento che ormai dieci anni fa Beppe Grillo definiva morto o moribondo, si sia incaricato col tempo di confermare quella sentenza.