Esecutivi di entrambi i colori hanno usato a dismisura lo strumento del decreto legge, tanto che a maggio si è creato un vero ingorgo. Ma serve anche dare spazio alle opposizioni

Verrà ricordato come il maxi-ingorgo di maggio. Ma non si tratta di un lungo ponte di primavera, bensì della raffica di decreti che il Parlamento dovrà votare a manetta entro il mese. Dopo il via libera al dl Cutro (immigrazione), almeno altri quattro sono sotto scadenza: criptovalute, ponte sullo Stretto, bollette e Pubblica amministrazione. Ma incombono anche il decreto fiscale, nonché quello per il taglio del cuneo e l’ormai noto dl Lissner che è servito a far sloggiare l’ad della Rai. Per un totale di sette.

 

Siamo così alla ragguardevole soglia di 28 decreti finora varati in sei mesi e mezzo dal governo Meloni. Più di uno alla settimana, di cui 21 già approvati, e la modica somma di 13 fiducie chieste e ottenute (10 alla Camera e 3 al senato) e altre due in arrivo. Un ritmo da panzer che ha pochi precedenti negli ultimi trent’anni, ma sulla scia di una deriva da votificio che è stata impressa da destra a sinistra al Parlamento, sempre più spesso costretto a ratificare e non a legiferare analizzando e migliorando i testi.

 

La ragione è semplice: a Montecitorio e a Palazzo Madama c’è una maggioranza netta che usa gli strumenti sul tavolo (salvo istruttivi incidenti come quello sul Def). L’opposizione, divisa in tre blocchi e sfilacciata, resta a guardare. Ma il banco di prova sulle riforme istituzionali, con tanto di sfida Meloni-Schlein, potrebbe cambiare le cose. Perché sembra difficile che si possa riscrivere insieme la Costituzione se prima non si stringe un patto sulla funzionalità del Parlamento.

 

Così, dietro le quinte, si fa strada la trattativa sulla riforma del regolamento che potrebbe portare a un doppio risultato: attenuare il ricorso massiccio ai decreti e ottenere uno “statuto delle opposizioni” che garantisca uno spazio chiaro e definito a chi è in minoranza, magari contribuendo – anche con lo scontro – a migliorare le leggi. L’idea è quella di accorciare i tempi per il ricorso alla fiducia alla Camera – oggi sono necessarie 24 ore di attesa dal momento in cui viene posta – adeguandoli a ciò che già avviene al Senato: votazione immediata. In compenso, l’opposizione potrebbe ottenere più tempo per il dibattito parlamentare altrimenti strozzato.

 

Insomma, l’idea è di ricorrere ad una sorta di corsia preferenziale per le misure del governo, ma seguendo la via ordinaria. Anche perché esistono già strumenti con cui è possibile contingentare i tempi, ottenendo un percorso rapido simile al decreto. In sostanza, entro quei 60 giorni (al massimo 80) già previsti per la conversione, ma senza l’acqua alla gola che scatena la bagarre in aula e non porta correzioni.

 

Semplice? Nient’affatto. Perché il decreto ha sempre ingolosito i governi di ogni risma e garantisce un enorme vantaggio: entra subito in vigore. Soddisfa l’ego dei partiti, che non vedono l’ora di sventolare il trofeo davanti agli elettori. Difficile, dunque, invertire la rotta. Soprattutto perché nei governi di coalizione è più facile dirimere scontri e controversie nelle quiete stanze di Palazzo Chigi, tra leader e ministri, anziché scendere nell’arena parlamentare. Ma una scrematura è possibile, distinguendo tra misure urgentissime e altre più d’orizzonte per le quali la via ordinaria è praticabile e non accende inferni con l’opposizione. Soprattutto se vuoi farci insieme le riforme.