Sospesa la soluzione della crisi politica. Sospesa la leadership nel Pd. Sospeso  il nostro Paese in Europa. La Grande Attesa non è finita con il voto, anzi. Perché la crisi è uno stato mentale, e anche l’Italia.

La Grande Sospesa. L’avevamo chiamata così sei mesi fa sull’Espresso, quando le elezioni erano ancora lontane e nessuna previsione sull’esito del voto sembrava possibile. Un paese alla frontiera tra un vecchio sistema in declino e un nuovo che stentava a nascere, tra gli schieramenti degli ultimi venticinque anni e i candidati alla loro successione tutti da esaminare, un paese che viveva «nell’attesa perenne di una stabilità politica e istituzionale che verrà, ovviamente domani», scriveva Ilvo Diamanti su queste pagine, perché di oggi, invece, non c’è certezza. La sospensione, lo stato di attesa, com’era prevedibile dopo l’approvazione frettolosa e miope della legge Rosatellum, si è prolungata dall’appuntamento con le urne del 4 marzo in queste settimane post-elettorali. E si sta trasformando in qualcosa di più: un’attitudine, per qualcuno forse addirittura una virtù, perché una soluzione accettabile domani è meglio di una trovata pasticciata oggi, una condizione esistenziale.

L’Italia vive come Chance il giardiniere interpretato da Peter Sellers in “Oltre il giardino” che nella scena finale cammina sulle acque e sente ripetere: la vita è uno stato mentale. La crisi è uno stato mentale, di sospensione.

Sospesa è la trattativa per formare un nuovo governo, tra il rito delle consultazioni al Quirinale, le esplorazioni, i mandati affidati a personalità istituzionali di antico lignaggio e di recentissima generazione, quella di Elisabetta Alberti Casellati e di Roberto Fico. Sospesi i rapporti di forza tra i partiti, nonostante il corpo elettorale si sia appena espresso nella sua totalità, per raffinare i pesi c’è già l’attesa di altre elezioni, di nuove proiezioni, sondaggi, voti, verifiche elettorali.

Le consultazioni regionali delle prossime settimane in Molise e in Friuli Venezia Giulia, finiscono quasi di contare di più del 4 marzo, il Movimento 5 Stelle e la Lega di Matteo Salvini, i vincitori di un mese e mezzo fa, aspettano nuovi successi da rilanciare sul tavolo da poker nazionale.

Sospesa è la leadership nel secondo partito italiano, il Partito democratico, uscito dimezzato dalle elezioni eppure potenzialmente ancora decisivo per trovare una exit strategy alla crisi, ma senza una classe dirigente in grado di decidere: si rinvia all’assemblea, al congresso, alle primarie, intanto si moltiplicano le candidature e le auto-candidature, l’impasse per la guida del partito fotografa quella per la guida del governo, e viceversa. Sospesa è la ricerca di un’identità a sinistra, la questione su cui L’Espresso ha aperto la settimana scorsa un dibattito che mette in gioco una tavola di valori sconvolta negli ultimi anni, anche se i protagonisti sembrano non essersene mai accorti, e che per questo richiede nuove voci, anche sul piano generazionale (dopo l’intervento di Paola Natalicchio dell’ultimo numero, in questo pubblichiamo le idee di tre ricercatori trentenni).

Sospesi, in realtà, sono tutti i partiti, da Forza Italia che vivacchia con la guida di Silvio Berlusconi pietrificata come una statua immobile, in una sospensione del tempo e dello spazio, al Movimento 5 Stelle che a Roma si presenta con il volto rassicurante di Luigi Di Maio, ferocemente determinato a occupare le posizioni che il successo elettorale gli ha consegnato, più di potere che di governo, e a Ivrea rivela la sagoma di Davide Casaleggio, imperscrutabile e oscura, aliena al confronto con l’altro da sé.

L’unico che sembra muoversi in questa navicella in orbita che è la politica italiana, con il punto di caduta ancora misterioso, è il leader leghista Salvini, e si vede. Lui ha la sua direzione, il tempo gioca per lui, il tempo breve della crisi e il tempo lungo della conquista dell’intero centrodestra, in un’Europa a sua volta sospesa, inconsapevole degli effetti sistemici di quanto sta accadendo in Italia. Sospeso è il governo, forse in molti se ne sono dimenticati ma è ancora in carica Paolo Gentiloni, i suoi ministri lavorano, a partire da Marco Minniti al Viminale, la realtà e le sue urgenze non ammettono vuoto.

«In politica sembrava ovvio (e ancora sembra ai più) che una parte volesse prevalere sull’altra, che una minoranza volesse diventare maggioranza; che si volesse, insomma, vincere. Ma lentamente ci accorgeremo che la politica è ai nostri giorni condizionata dalla paura di prevalere, di vincere; e che quella che si suol dire l’arte della politica consisterà nel trovare gli accorgimenti più acuti e più nascosti per non prevalere, per non vincere», scriveva Leonardo Sciascia più di quarant’anni fa. Oggi siamo arrivati a questo: i vincitori si dichiarano trionfanti, ma non si prendono la responsabilità di andare avanti, di costruire una soluzione credibile. Vorrebbero il potere, il comando, ma non il governo e le sue spine.

Anche il Quirinale sembra sospeso, ma non lo è. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella procede guidato dalla bussola dell’interesse nazionale e da una cultura politica di origine cattolico-democratica che prevede l’inclusione nelle istituzioni dei fenomeni che si agitano nella società. Portare dentro, dentro le istituzioni, il Parlamento, l’area del governo, quello che è nato e cresciuto fuori. Con una conseguenza, però. Chi fa questo cammino non può essere oggetto di nessuna esclusione, nessuna conventio ad excludendum è immaginabile, come avveniva in passato per il Pci per motivi interni e internazionali, specie per chi ha raccolto milioni di voti, nel caso del Movimento 5 Stelle, ma deve accettare le regole dell’inclusione: il riconoscimento degli avversari, la serietà politica (che prevede, ad esempio, che gli alleati non siano interscambiabili, oggi la Lega, domani il Pd, e viceversa), il rispetto dei pesi e dei contrappesi che in democrazia valgono più di chi raggiunge la maggioranza. Nella Russia di Putin e nell’Egitto di Al-Sisi si vota e si elegge una maggioranza, ma non esistono standard accettabili di qualità dell’informazione e di autonomia e indipendenza della magistratura.

Sono due fronti su cui, in un passato recente, sono cadute le ambizioni di cambiamento dei nuovi arrivati. Nel 1994 il centrodestra appena nato vinse le elezioni sulla spinta delle inchieste di Mani Pulite che avevano travolto la precedente classe dirigente, si era intestato l’effetto politico della rivoluzione giudiziaria. Un deputato della Lega aveva sventolato un cappio nell’aula di Montecitorio, spettacolo mai superato di giustizialismo forcaiolo in un’aula parlamentare. Un gruppo di deputati dell’allora Msi, guidato dall’allora deputato di prima nomina Maurizio Gasparri, aveva assediato il palazzo della Camera con una manifestazione di protesta e il vetro del portone di ingresso scheggiato dal lancio di un oggetto: un’azione squadrista. E le reti Fininvest e l’impero mediatico del Biscione di Silvio Berlusconi tifavano per i pm di Milano. Dopo il voto, i vincitori convocarono i magistrati simbolo, Antonio Di Pietro e Piercamillo Davigo, e proposero loro di entrare nel nuovo governo come ministro dell’Interno e ministro della Giustizia. Per Di Pietro il luogo scelto fu addirittura lo studio legale di via Cicerone a Roma dell’avvocato Cesare Previti, condannato poi per corruzione in atti giudiziari: uno che le toghe usava comprarle, come al supermercato. I magistrati dissero di no e si scoprì fin da subito che quei vincitori così solerti con le esigenze di giustizia, legalità e onestà non tolleravano in realtà i poteri di controllo della magistratura e della libera stampa. E cominciò così una lunga guerra civile.

Nella sospensione dei poteri c’è anche questa partita. La magistratura attende l’elezione del nuovo Consiglio superiore della magistratura, le toghe sono chiamate al voto per l’inizio di luglio, il Parlamento dovrà scegliere i membri laici. Nello stesso periodo, a metà estate, finirà il suo mandato il consiglio di amministrazione della Rai, il nuovo sarà nominato con la legge approvata dal governo Renzi, con i membri eletti dalle due Camere e dal governo. Giustizia e informazione pubblica sono ancora una volta, come sempre, il banco di prova, il sintomo da cui si capisce lo stato di salute di una democrazia. Se il cambiamento consiste in un mutamento di metodi, comportamenti, mentalità, oppure si riduce a una semplice sostituzione di classe dirigente: i miei al posto dei tuoi, i nostri invece dei vostri. Con gli stessi criteri di fedeltà e obbedienza che hanno caratterizzato il passato. In una stagione in cui sulla rete e sui social le diverse fazioni si combattono a colpi di fake e di dileggio degli avversari, esterni e interni. Succede perfino nella Chiesa, come ha denunciato papa Francesco nella sua esortazione: «Anche i cristiani possono partecipare a reti di violenza verbale mediante internet e i diversi ambiti o spazi di interscambio digitale. Persino nei media cattolici si possono eccedere i limiti, si tollerano la diffamazione e la calunnia, e sembrano esclusi ogni etica e ogni rispetto per il buon nome altrui. Così si verifica un pericoloso dualismo, perché in queste reti si dicono cose che non sarebbero tollerabili nella vita pubblica, e si cerca di compensare le proprie insoddisfazioni scaricando con rabbia i desideri di vendetta». Un ritratto non edificante dello stato del dibattito pubblico all’interno della Chiesa, e dei meccanismi che scatenano le campagne di informazione e di disinformazione attorno a questo pontificato, che può essere applicato senza cambiare nulla alla violenza delle tifoserie politiche che ogni giorno si contendono sul web il possesso della verità e la delegittimazione di chi la pensa diversamente.

In questa sospensione, dunque, non è in gioco soltanto la nascita del governo. Ma anche la tenuta dello Stato, gli equilibri istituzionali, la qualità del confronto tra leader, partiti, elettorati diversi. E il ruolo dell’Italia in un’Europa sempre più egemonizzata dalle forze che mirano a distruggere il senso dello stare insieme nell’Unione. Viktor Orbán è la perfetta risultante del centro-destra italiano, è aderente del Ppe, come Silvio Berlusconi, e alfiere del sovranismo, il ritorno del nazionalismo e delle chiusure delle frontiere, come Matteo Salvini. Nessuno sembra portarsi all’altezza di questo contesto, nelle piccole miserie tattiche della politica italiana di queste settimane.

Avanza un inedito, un governo di co-gestione parlamentare, di cui sono un modello le commissioni speciali di Camera e Senato chiamate a esaminare i provvedimenti più urgenti, in attesa che si formino le commissioni permanenti. Al Senato è presieduta da Vito Crimi (M5S), alla Camera dal leghista Giancarlo Giorgetti, il braccio destro di Salvini, la mente più lucida della Lega, ambasciatore tra i poteri economici e finanziari, immancabile convitato in tutte le trattative decollate e tramontate di questi giorni, candidato a Palazzo Chigi. Il governo del tutti dentro per far partire la legislatura, e chiuderla presto. La fine di uno stato di sospensione che serve ad aprirne un altro ancora più lungo. La crisi è uno stato mentale, e anche l’Italia.