Una prova di forza potrebbe portare al fallimento come già successo a Renzi. Meglio una commissione di studio quindi. Ma le difficoltà non mancano

Il rischio da evitare, se mai partiranno, sarà quello di fare il bis del Pnrr: troppa carne al fuoco, con la certezza che per chiedere troppo alla fine nulla stringi. Per questo sulle riforme Giorgia Meloni ha un piano soft. Non la prova di forza a maggioranza, garantita dalla procedura con l’articolo 138 della Costituzione e il referendum finale (vedi il suicidio politico di Renzi). Né la reboante formula della Bicamerale istituita con disegno di legge costituzionale, nata con l’asse D’Alema-Berlusconi e sbriciolata con tutto il “patto della crostata” per avere tentato di riscrivere mezza Carta: dalla giustizia, al lavoro passando per l’elezione del capo del governo.

 

No, la premier pensa ad una via semplice e poco rumorosa prima dell’estate: una doppia mozione di Camera e Senato per far partire una commissione, poco più di un gruppo di studio, sulle riforme. Poi, nel giro di pochi mesi, la formulazione di una bozza che a quel punto potrebbe dar vita a una bicamerale costituzionale. Qualcosa di simile a quel che avvenne con la De Mita-Iotti nel ’93, quando poi esplose Tangentopoli e travolse ogni velleità riformista. Insomma, la strategia soft meloniana prevede l’assunzione della prima mossa ma senza l’identificazione - la riforma sono io - che disarcionò D’Alema e defenestrò Renzi.

 

I vantaggi di questo approccio, sulla carta, sono chiari: perché l’opposizione divisa in tre dovrebbe dire no a priori ad un innocuo gruppo di studio? Inoltre, vista già l’entusiastica adesione del terzo polo ma pure i tangibili segnali tra FdI e Conte come dimostra il caso Rai, conviene al Pd sfilarsi dalla partita e regalare il pallino all’avversario-potenziale alleato di domani?

 

Il primo obiettivo, nei piani, è restringere il campo. Quindi, via la tentazione di riformare la giustizia (come piacerebbe ad un ampio partito trasversale), semmai bisogna concentrarsi su tre cose: forma di governo (presidenzialismo o premierato), forma di Stato (federalismo con connessa e divisiva autonomia), bicameralismo (una sola e più nutrita Camera per le leggi, dato che il taglio dei parlamentari non ha migliorato alcunché). Visto che all’opposizione nessuno vuole l’elezione diretta del Presidente della Repubblica e che quella del premier risulta indigesta anche a parte della maggioranza, una strada potrebbe essere il semplice rafforzamento dei poteri del primo ministro. Quanto al Quirinale, obbligatorio mantenere il ruolo di garante dell’unità nazionale proprio in vista di una autonomia differenziata modello leghista che rischia di spaccare il Paese.

 

Il percorso è pieno di mine.

1) che fare della ministra per le Riforme, Casellati, così palesemente disarcionata?

2) chi mettere alla guida della commissione se non l’esperto Marcello Pera, unico in grado di tenere a bada l’autonomista Calderoli, e di avere credibilità istituzionale?

3) in quanto tempo realizzare le riforme, visto che l’anno prossimo incombono le Europee, sicura miccia di risse anche tra alleati?

 

Sarebbero necessari almeno tre anni tra battesimo della commissione, scrittura di una bozza e doppio passaggio parlamentare. Nel frattempo, forse, saranno chiariti anche i progetti politici. A destra nascerà un partito conservatore? A sinistra ci sarà un’alleanza Pd-M5S? Nei due casi il premierato o simili potrebbero convenire a tutti. Altrimenti, il solito tonfo riformista.