Già oggi il Governo esautora il Parlamento in troppi casi. Con la riforma la situazione peggiorerebbe

Tra le riforme che il governo intende portare avanti c’è la riforma istituzionale, incluse forme di presidenzialismo che, presumibilmente, accrescerebbero il ruolo del Governo, titolare del potere esecutivo, nella gestione della cosa pubblica. Non sono un esperto di diritto costituzionale, per cui mi avventuro in un campo che non è il mio. Vi darò semplicemente la mia reazione da cittadino su come alcuni aspetti dell’attuale relazione tra Governo e Parlamento già differiscano da quello che ci si potrebbe aspettare rispetto alla tradizionale separazione dei poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) che dovrebbe caratterizzare le democrazie liberali.

 

Parto dall’Articolo 70 della Costituzione: «La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere». Chiarissimo, come pure è chiaro che, come previsto da altri articoli della Costituzione, ci sono buoni motivi per cui il Governo, in aggiunta ad avere una sua iniziativa legislativa, possa adottare provvedimenti aventi forza di legge, i decreti legge per motivi di urgenza, che devono essere poi approvati dal Parlamento, e i decreti legislativi, rispetto ai quali il Parlamento ha delegato il Governo a legiferare. I paletti sono però ben chiari: il Governo può adottare provvedimenti aventi forza di legge solo in casi ben definiti.

 

Questa la teoria e questa la pratica, visto che altrimenti si violerebbe la Costituzione. Solo che la teoria va interpretata e la pratica si muove sempre più all’interno di interpretazioni piuttosto ampie. Quattro le tendenze (per colpa di tutti i governi, indipendentemente dal colore politico, anche se con diversi gradi di intensità).

Primo, ormai la maggior parte delle leggi approvate sono di iniziativa governativa.

Secondo, i decreti legge sono diventati sempre più numerosi e omnicomprensivi, includendo anche norme che per lo meno sollevano dubbi in termini di urgenza, tanto da portare il Presidente Mattarella a sottolineare «l’abuso della decretazione d’urgenza» nella sua lettera seguita alla promulgazione dell’ultimo decreto milleproroghe.

Terzo, i «principi e criteri direttivi» (Art. 76) che devono essere contenuti nelle leggi delega sono spesso vaghi. Un buon esempio è dato dalla recente legge delega sulla riforma del fisco che non contiene nulla sul numero e il valore delle aliquote Irpef, Iva, Ires e così via, impedendo, quindi, di valutare, per esempio, quanto il grado di progressività del sistema tributario verrebbe cambiato per effetto della riforma, un punto di estrema importanza per la giustizia sociale.

Quarto, il frequente ricorso al voto di fiducia per il passaggio di disegni di legge o decreti legge in una delle due Camere comporta, di fatto, un quasi-monocameralismo, riducendo ulteriormente il ruolo del Parlamento.

 

Di fronte a questi sviluppi, è una buona idea rafforzare ulteriormente il ruolo del potere esecutivo attraverso forme di presidenzialismo? Da un lato si potrebbe sostenere che una riforma in tal senso riconoscerebbe una situazione che, di fatto, è già esistente. Dall’altro però si potrebbe temere che il presidenzialismo porti a un ulteriore svuotamento del ruolo del Parlamento rispetto a quello del Governo. Montesquieu, tra i primi a sottolineare l’importanza della separazione dei poteri, come garanzia di libertà sarebbe preoccupato.