Solo un ricalcolo statistico tiene a bada il deficit. E rapporto debito/pil migliora solo grazie all’inflazione

Il Parlamento discuterà presto il primo Documento di Economia e Finanza (Def) del Governo Meloni. Mi limiterò ad alcuni punti più rilevanti.

 

Primo, il governo ha rivisto verso l’alto il tasso di crescita del Pil per il 2023 (dallo 0,6 all’1%). È una revisione ragionevole viste le tendenze in atto. Per il 2024, però, prevede una crescita più alta, 1,4%. Mi sembra una previsione ottimista. A livello trimestrale comporterebbe tassi di crescita che sono il doppio di quelli che si prevedono per il 2023. A meno di pensare che il Pnrr, nonostante i ritardi di implementazione, abbia già un effetto rilevante sulla nostra crescita, non si vede un chiaro motivo di una tale accelerazione.

 

Passiamo all’inflazione, in discesa rispetto al 2022. Ma viene rivista verso l’alto nel 2023 nella sua componente interna (il prezzo di quanto prodotto internamente, ossia il deflatore del Pil, è previsto crescere del 4,8 per cento, contro il precedente 4,1): sempre più l’inflazione è dovuta ai prezzi interni, mentre quelli internazionali agiscono ora in senso opposto, come nel resto dell’eurozona. Questo complica la vita alla Bce che, però, per ora si prende una pausa evitando ulteriori aumenti dei tassi di interesse, forse anche per paura delle conseguenze che questi potrebbero avere sulle banche.

 

Il governo conferma gli obiettivi di deficit pubblico rispetto a quelli fissati sei mesi fa, «con immutata coerenza», dice la premessa firmata da Giorgetti. Immutata rispetto a che, visto che è la prima volta che il governo ha l’occasione di rivedere gli obiettivi? Anche sulla coerenza c’è qualcosa da ridire. Certo il rapporto tra deficit e Pil resta al 4,5% quest’anno. Ma, a seguito di decisioni prese da Eurostat, i crediti d’imposta relativi ai bonus edilizi sono stati riclassificati da quest’anno e dai successivi al 2022. Questo, rispetto alle previsioni fatte 6 mesi fa, ha gonfiato il deficit per il 2022 (di quasi 2 punti percentuali di Pil) e ha sgonfiato i deficit negli anni seguenti. Il Def non ci dice di quanto, ma l’ordine di grandezza per il 2023, potrebbe però essere di mezzo punto percentuale. Quindi, per confrontare l’andamento del deficit nel 2023 rispetto a quanto previsto, occorre aggiungere mezzo punto percentuale. Il deficit sarebbe quindi di 5% del Pil, senza la riclassificzione. Il deterioramento del deficit rispetto alle previsioni è ancora più evidente se si esclude la spesa per interessi (che viene, sorprendentemente, rivista verso il basso sempre rispetto alle previsioni di ottobre). Al netto degli interessi, il deficit è ora previsto allo 0,8% del Pil, contro 0,4% di sei mesi fa, ma senza la classificazione sarebbe dell’1,3%, un peggioramento di quasi 1 punto percentuale, ossia 20 miliardi. Per 3 miliardi questo peggioramento è dovuto alla decisione di tagliare le tasse, ma il resto suggerisce un aumento della spesa o minori entrate rispetto a quanto previsto al momento della legge di bilancio. Una performance non troppo brillante.

 

Un ultimo punto. Il rapporto tra debito pubblico e Pil è previsto essere più basso di quanto previsto in ottobre, ma questo è in buona parte spiegato dalla maggiore inflazione interna che erode il valore dei titoli di Stato in circolazione, una tassa occulta.

 

Insomma, a guardar bene questo Def i conti pubblici sono meno positivi di quello che sembrano a prima vista.