La legge che finanzia le ristrutturazioni edilizie era troppo onerosa per il bilancio dello Stato. Ma mantenere le promesse su pensioni e tasse sarà ancora più costoso. E con l’aumento dei tassi d’interesse i margini di manovra del governo sono sempre più stretti

Lo spread? In discesa. L’inflazione? Domata. La Borsa? In rialzo costante. A fine gennaio Giorgia Meloni ha festeggiato i suoi primi 100 giorni a Palazzo Chigi come la tappa d’esordio di un percorso già segnato «per il quale possiamo avere ottimismo», ha scandito la presidente del Consiglio. Meno di un mese dopo, la realtà si è già presa la rivincita sulla propaganda. Il calo dei tassi d’interesse si è fermato, sui mercati azionari regna l‘incertezza e nessun analista è pronto a scommettere su un rapido rientro dell’alta marea del carovita. Lo scenario, insomma, resta quantomai incerto e Meloni è costretta a correggere la rotta. Meno proclami, più sostanza, perché c’è il rischio di bruciare subito il capitale di fiducia fin qui accumulato grazie anche al miglioramento di alcuni indicatori economici.

 

Si spiega anche così la mossa a sorpresa sul Superbonus 110 per cento, sacrificato sull’altare della stabilità dei conti pubblici. L’annuncio, strategicamente fissato quattro giorni dopo le elezioni in Lombardia e Lazio, ha deluso una larga fetta della tradizionale base elettorale del centrodestra. Un esercito di costruttori, artigiani e professionisti che negli ultimi due anni avevano cavalcato il boom dell’edilizia innescato dalla norma introdotta nell’estate 2020, ai tempi del secondo governo Conte.

 

Adesso i partiti della maggioranza promettono un paracadute, un marchingegno tecnico che riduca i danni per le categorie più colpite dal provvedimento. La strada però è già segnata. Il Superbonus, costato finora oltre 70 miliardi, è stato messo in condizione di non nuocere più alle casse dello Stato, cancellando la norma che permetteva di vendere i crediti d’imposta. Senza l’intervento varato in tutta fretta dal Consiglio dei ministri di giovedì 16 febbraio, il sussidio pubblico per le ristrutturazioni edilizie avrebbe assorbito almeno altri 30 miliardi di fondi pubblici, annullando di fatto i margini di manovra del governo per intervenire su altri dossier come le pensioni e le tasse.

 

«Abbiamo tirato una riga per rimettere i conti in sicurezza», ha sintetizzato con realismo lumbard Giancarlo Giorgetti, che dal dicastero dell’Economia da mesi premeva per chiudere una volta per tutte il rubinetto del Superbonus. Missione compiuta, ma non è affatto detto che il governo adesso sia in grado di accelerare verso le riforme promesse in campagna elettorale. Nel primo trimestre dell’anno, il Pil crescerà poco o nulla, anche se la recessione temuta e annunciata nei mesi scorsi sembra ormai scongiurata. E sui mercati finanziari, nonostante i segnali positivi a suo tempo sbandierati da Meloni come se fossero un suo successo personale, l’ottimismo è tutt’altro che condiviso dalla platea degli analisti. Dopo la rimonta cominciata l’estate scorsa, le Borse in febbraio hanno rallentato il passo. Nessuna netta correzione al ribasso, ma per il momento gli indici azionari vivacchiano, frenati dall’incertezza globale sull’andamento dell’inflazione.

 

La buona notizia è che i prezzi dell’energia si stanno sgonfiando. E con le quotazioni di gas ed elettricità in ribasso costante, da aprile in poi anche il governo potrebbe ridurre, o addirittura cancellare del tutto, i bonus e gli sconti destinati ad aiutare famiglie e imprese alle prese con l’impennata delle bollette. Nella legge di bilancio del 2023, l’esecutivo ha già stanziato oltre 20 miliardi di euro per finanziare il prolungamento di questi sussidi, che però scadono nel primo trimestre dell’anno. Questa somma va ad aggiungersi ai 57 miliardi già spesi nel 2022, nella fase più acuta della crisi delle materie prime.

 

Adesso, però, dopo mesi di tensioni senza precedenti, nelle Borse internazionali dell’energia è tornata una relativa calma. Nessuno teme più il razionamento o addirittura un blocco totale delle forniture russe. Questo significa che a primavera le bollette potrebbero calare ancora e a quel punto il governo dovrà decidere che fare degli sgravi fiscali varati la prima volta nel settembre del 2021, con Mario Draghi a Palazzo Chigi. Nel frattempo, se il metano continuerà a viaggiare intorno ai 50 euro al megawattora, come succede da settimane, è prevedibile che a fine febbraio anche l’indice dei prezzi farà segnare un ulteriore ribasso.

 

È ancora troppo presto, però, per cantare vittoria contro il carovita. A gennaio l’inflazione si è raffreddata rispetto al record di dicembre, ma serviranno ancora mesi di ribassi per convincere le banche centrali a tagliare il costo del denaro. Il 16 marzo, nella prossima riunione del consiglio direttivo, la Bce aumenterà ancora il tasso di riferimento, destinato a salire di un altro mezzo punto fino a quota 3 per cento. Il rischio è che la nuova sterzata di politica monetaria finisca per congelare anche l’economia reale, con le aziende costrette a far fronte a costi troppo elevati per finanziarsi sul mercato. Proprio questo è l’esito nefasto da cui Fabio Panetta, membro del comitato esecutivo della Bce, ha voluto mettere in guardia i suoi colleghi di Francoforte. Era il 16 febbraio scorso e per l’occasione Panetta ha citato una canzone di Lucio Battisti. Bisognerebbe evitare, ha detto il banchiere italiano, di «guidare come un pazzo a fari spenti nella notte». In altre parole, le decisioni andrebbero di volta in volta «modulate» sulla base dei dati economici, senza impegnarsi per il futuro annunciando nuove strette. Non è questa, però, la posizione dominante al vertice della Bce, dove prevalgono i falchi del Nord Europa, favorevoli a stroncare l’inflazione a suon di rialzi dei tassi.

 

Nelle stanze della Banca Centrale Europea prevale il timore di accumulare altro ritardo rispetto alla corsa dei prezzi, dopo aver colpevolmente sottovalutato, ormai un paio di anni fa, i primi segnali che, con la fine della pandemia, l’economia si stava pericolosamente surriscaldando. Al momento, quindi, sono ridotte al lumicino le speranze che Francoforte cambi rotta. Anzi, è probabile che prima dell’estate si arrivi a un nuovo rialzo dopo quello di metà marzo. Queste decisioni avranno un effetto immediato anche a Roma. Dopo anni di tregua, una tregua garantita da tassi prossimi allo zero, da mesi il governo Meloni è costretto a fare i conti con l’aumento della spesa per interessi sui Btp. Anche nel 2022 il debito pubblico ha continuato la sua corsa toccando a dicembre la cifra record di 2.762 miliardi, circa 84 miliardi in più rispetto alla fine del 2021.

 

C’è una differenza sostanziale, però, rispetto al recente passato. Un anno fa il Tesoro italiano era riuscito a collocare 7 miliardi di Bot a un anno con un rendimento lordo sottozero, pari a meno 0,32 per cento. In pratica gli investitori hanno pagato per parcheggiare i loro soldi nella casse pubbliche. Il 10 febbraio scorso il tasso offerto su un titolo pubblico con scadenza analoga era salito al 3,17 per cento. Lo stesso discorso vale per i Btp a 10 anni che un anno rendevano l’1,85 per cento annuo, meno della metà rispetto al 4,3 per cento attuale. Ecco perché, con l’ultima legge di bilancio, il ministero dell’Economia ha dovuto correggere al rialzo il budget di spesa per gli interessi sui titoli di stato. Nel 2023 l’esborso previsto toccherà 81 miliardi, circa 20 miliardi in più rispetto a quanto previsto ad aprile del 2022, con Draghi a Palazzo Chigi. L’inflazione ha cambiato le carte in tavola, moltiplicando i costi a carico dello Stato e sottraendo risorse che potrebbero essere destinate altrove, a cominciare dal welfare. E se i tassi aumenteranno ancora, come pare probabile, la situazione potrebbe anche peggiorare, mettendo a dura prova l’ottimismo di Giorgia Meloni. Quello della festa dei 100 giorni di governo.