Chi può investe in valuta straniera oppure per acquistare beni voluttuari (come i biglietti per andare in Qatar a seguire Messi e compagni) prima che i pesos perdano quel poco valore rimasto. «Frenare questa dinamica è come frenare una valanga»

«Cambio! Cambio dollari, euro! Cambio!». Questa la cantilena che si ascolta ininterrottamente attraversando la strada più commerciale del centro di Buenos Aires, la rinomata calle Florida. A intonarla è uno stuolo di bagarini che offrono di comprare e vendere i biglietti verdi e quelli gialli a un prezzo doppio a quello della quotazione ufficiale. La cantilena non è nuova per nessun argentino ormai abituato ai violenti cicli di svalutazione che investono il Paese da circa cinquant’anni a questa parte, ma risuona da alcuni mesi con sempre più forza e vigore.

 

Sull’onda di un’inflazione che viaggia a un ritmo ormai di quasi il 100 per cento annuale, le divise straniere più forti sono infatti tornate a rappresentare, per la parte della popolazione in grado di risparmiare anche solo una piccola parte delle entrate, il principale rifugio contro la rapida perdita del potere d’acquisto e il pericolo di una nuova svalutazione. Il governo ha annunciato di recente misure principalmente in materia di controllo dei prezzi, ma le pressioni inflazionistiche ormai vanno al di là sia delle dinamiche del mercato interno sia di quelle che provengono dal contesto globale.

 

Un nodo centrale è quello rappresentato dal valore reale della moneta locale, il peso. Nel mercato ufficiale un euro vale 160 pesos contro i 290 a cui viene scambiato tanto nel mercato nero quanto nei mercati finanziari (attraverso lo scambio di titoli). Si tratta di una breccia che disordina l’intero sistema dei prezzi relativi interni che nella maggior parte dei casi fa ormai chiaramente riferimento al valore del peso al mercato nero.

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I pesos evaporano letteralmente nelle tasche della gente e, per quelli che non sono in grado di risparmiare comprando dollari, un altro rifugio possibile contro l’inflazione è spendere i soldi prima che sia troppo tardi. Quelli che possono comprano proprietà, automobili, elettrodomestici. Altrimenti si spende al supermercato, in attività ricreative, o andando in vacanza dove possibile. Eventualmente anche in Qatar. Se nella prima fase a gironi l’organizzazione stima che siano stati almeno 40 mila gli argentini ad assistere all’incerto avvio della squadra guidata da Messi, nella partita dei quarti di finale con i Paesi Bassi, giocata in uno stadio da quasi 90 mila spettatori, la maggioranza degli spalti era tinta di celeste e bianco. «Era come se l’Argentina giocasse in casa», ha detto Messi. E d’altra parte la stessa ministra del Lavoro argentina, Kelly Olmos, in risposta a una domanda sul mondiale, ha affermato che «dal punto di vista del morale, un successo dell’Argentina può fare più che qualsiasi misura del governo». Eppure il biglietto di maggiore denominazione in circolazione, quello da 1.000 pesos, vale ormai poco più di 6 euro sul mercato ufficiale e poco meno di 3,5 euro al mercato nero, una circostanza che obbliga la gente a circolare con mazzette di contanti spropositate.

 

«La gente non vuole saperne nulla dei pesos», afferma Vicente Fabis, arrivato dalla Calabria in Argentina nel Dopoguerra e fino a qualche anno fa proprietario di una delle migliori fabbriche di pasta fresca di Buenos Aires. Vicente le ha vissute tutte le crisi argentine degli ultimi cinquant’anni, e la congiuntura attuale non lo prende alla sprovvista. «Io ho imparato nel ’75 con il Rodrigazo», spiega. Il riferimento è al disastroso piano economico messo in atto dall’allora ministro dell’Economia, Celestino Rodrigo, sotto il governo di Isabelita Peron, e sfociato nella prima grande crisi inflazionaria dell’Argentina. Dopo il Rodrigazo per 16 anni consecutivi l’indice dei prezzi non è mai sceso al di sotto del 100 per cento con una punta del 444 per cento nel ’76, primo anno della dittatura militare. Per Vicente, così come per molti argentini, quell’esperienza rappresentò la fine del peso argentino, una valuta su cui «non era possibile pianificare un futuro», dice. «Quell’estate ero andato a vendere churros (dolci fritti) alla costa e già cambiavo dollari», racconta assecondato dalla moglie Gilda.

 

La Banca centrale stima che attualmente gli argentini siano in possesso di almeno 200 miliardi di dollari in biglietti. Una cifra che rappresenta il 10 per cento del totale dei dollari messi in circolazione dalla Federal Reserve e il 20 per cento del totale dei dollari in circolazione al di fuori degli Usa. Vicente ha iniziato a risparmiare in dollari nel ’75 e non ha più smesso. Una decisione che ritiene gli abbia permesso di sostenere la sua attività attraverso anche la forte crisi del 2002 e di assicurarsi poi una rendita per la pensione.

 

D’altra parte non c’è bisogno di avere l’esperienza di cinquant’anni di crisi sulle spalle per capire che i pesos in tasca bruciano. Lo sanno perfettamente anche i giovani argentini entrati da poco nel mondo del lavoro e alle prese con un disordine assoluto dei prezzi. Un paio di scarpe da ginnastica importate può arrivare a costare fino a 50 mila pesos, che al cambio ufficiale sono oltre 300 euro, mentre il salario minimo ufficiale è di 60 mila pesos e l’affitto di un monoambiente nella capitale sfiora i 90 mila pesos. Per loro, a queste condizioni il risparmio, l’acquisto di una casa propria o qualsiasi tipo di pianificazione sono obiettivi preclusi. L’orizzonte è il breve termine e spendere quello che si ha in tasca finché si ha.

 

Lo sa bene Camilo Duque, 30 anni, colombiano, gestore del Trade Sky Bar, uno dei locali “after-office” più alla moda della capitale argentina, ispirato al mondo della Borsa e strategicamente collocato al 22mo piano di uno degli edifici razionalisti più iconici del centro con una vista unica della città. Una cena qui costa sui 35 euro circa, e con inflazione e crisi di mezzo, il Trade è comunque sempre pieno, da lunedì a lunedì. «Abbiamo aperto poco prima della pandemia, e poi abbiamo dovuto chiudere per oltre un anno ma adesso abbiamo sempre tutto riservato», afferma Duque.

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Pedro Peña, chef e proprietario del ristorante di cucina fusion asiatica-argentina, Niño Gordo, nel quartiere di Palermo, neanche si può lamentare degli affari nonostante ammetta di essere costretto a modificare i prezzi del menù ogni 20 giorni. «La gente viene, mangia bene e passa un buon momento. Nessuno si pente di questa esperienza», afferma Peña. Nonostante il contesto di alta inflazione, l’Argentina è d'altra parte l’unico posto al mondo dove la band inglese Coldplay ha tenuto tra ottobre e novembre 10 concerti consecutivi. Il gruppo guidato da Chris Martin ha venduto in totale 600 mila biglietti incassando complessivamente 34 milioni di dollari. In un contesto di alta inflazione, andare a mangiare fuori, una notte in discoteca, un concerto dei Coldplay, o andare a vedere Messi ai mondiali del Qatar diventano quindi per gli argentini come una forma di investimento sul benessere personale.

 

Eppure, sul medio e lungo termine, l’inflazione aggrava immancabilmente gli squilibri nella piramide sociale. Chi non ha accesso ai dollari e vive di lavori precari o di una pensione minima rimane completamente in balia degli aumenti dei prezzi. Secondo gli ultimi dati ufficiali dell’Istituto nazionale di statistica (Indec) relativi al primo semestre del 2022 il 36,5 per cento della popolazione argentina versa in condizioni di povertà. In termini nominali sono 10,6 milioni di persone che vivono in nuclei familiari con introiti complessivi inferiori a 130 mila pesos mensili. Si tratta di una cifra equivalente a oltre 800 euro al cambio ufficiale e a 400 euro al valore ben più realista del mercato nero. Sebbene secondo questo rilevamento la povertà sia scesa di 4,1 punti rispetto allo stesso periodo del 2021, rappresenta un livello ancora al di sopra di quello pre pandemia e gli analisti stimano d’altra parte che con l’impennata dell’inflazione nel secondo semestre l’indice possa tornare a peggiorare sensibilmente.

 

Una percezione, questa, che si registra invece già quotidianamente nella mensa comunitaria della basilica di San José de Flores di Buenos Aires, la chiesa frequentata nell’infanzia dal papa Francesco. «Si nota un cambiamento, adesso viene gente anche della classe media e pensionati che non arrivano a fine mese», afferma il parroco Martin Bourdieu. La mensa serve 70 razioni doppie due volte al giorno a circa 140 persone. Tra questi anche Daniel Perez, 60 anni, ex calciatore dell’Argentinos Juniors. Da piccolo, nello storico club de La Paternal, Daniel ha conosciuto Diego Armando Maradona, di due anni più grande, e ha sognato di diventare come lui. Una lesione lo ha però allontanato dal calcio e oggi ha un lavoro precario come custode di una palestra. Affitta una stanza in una pensione e ricorre abitualmente ormai alla mensa della basilica.

 

Per l’economista Emanuel Alvarez Agis, ex vice ministro dell’Economia nel 2013, durante l’ultimo governo di Cristina Fernandez de Kirchner, e attuale direttore di PxQ, una delle società di analisi del mercato più influenti, frenare l’attuale dinamica inflazionaria è come «fermare una valanga». Il programma di riordinamento macroeconomico del governo di Alberto Fernandez si sta scontrando di fatto con difficoltà apparentemente insormontabili proprio in materia di inflazione. L’indice dei prezzi ha segnato ad ottobre un aumento dell’88 per cento annuo (+6,3 per cento su mese) con una proiezione del 100 per cento a fine del 2022.

 

L’esecutivo sta cercando a tutti i costi di evitare una deriva iper-inflazionistica che potrebbe sprofondare il Paese in una nuova crisi economica e sociale vanificando tutti gli sforzi fatti durante e dopo la pandemia. «Quello che noi argentini facciamo per proteggerci dall'inflazione è allo stesso tempo ciò che consolida l'inflazione», sostiene Alvarez Agis. Il riferimento è sia all’abitudine consolidata di risparmiare in dollari dell’argentino medio che alle diverse e sempre più astruse misure messe in atto dal governo per impedirlo. «Possiamo anche arrivare ad esportare 60 miliardi di dollari di litio e petrolio ma con l’Argentina ridotta ad essere un semplice spettatore, come succede ai Paesi africani, dove le risorse vengono isolate dal contesto in cui si trovano», profetizza l’ex vice ministro.