Dopo gli arresti dei giornalisti e il blocco milionario degli asset da parte delle autorità cinesi, il giornale ha annunciato la sua sospensione. «I dissidenti sono tutti in carcere o in esilio. La responsabilità di reagire adesso passa agli attori internazionali»

Alla fine non ce l’ha fatta a sopravvivere. Il filo a cui era attaccata la libertà di stampa a Hong Kong si è spezzato. Il giornale pro-democrazia, Apple Daily, non andrà più avanti, non pubblicherà più articoli, non si aggiornerà più, non stamperà più. La repressione delle autorità cinesi è stata troppo forte. L’anno scorso era stato messo in carcere il suo proprietario, Jimmy Lai, mentre negli ultimi giorni sono avvenuti arresti mirati verso giornalisti ed editori, e i congelamenti di beni. Questi ultimi si sono rivelati fatali. Da oggi la testata non è più in grado di pagare i propri lavoratori e, soprattutto, di garantirne la sicurezza. Per questo ha deciso di sospendere le sue uscite: l’ultima edizione cartacea sarà quella di giovedì 24 giugno.

 

Avevamo raccontato dell’ultimo raid svolto il 17 giugno da 500 agenti nella sede a Hong Kong che aveva portato all’arresto di cinque giornalisti e dirigenti di Apple Daily, ma anche dell'incredibile reazione della popolazione cittadina il giorno successivo: le edicole prese d’assalto e le copie del giornale andate a ruba nonostante una tiratura straordinaria. 

 

L’ondata di sostegno ricevuto sia dalla gente comune che da istituzioni straniere, non è però bastata. Prima è arrivato il blocco degli aggiornamenti del sito in inglese (iniziato solamente un anno fa), annunciato da un gelido articolo. Il 23 giugno, sono arrivati poi due comunicati ufficiali di Next Digital, la società proprietaria del giornale: «date le correnti circostanze la versione stampata di Apple Daily terminerà non oltre l’ultima edizione di sabato 26 giugno e quella digitale non sarà più accessibile dalla mezzanotte dello stesso giorno. La Società ringrazia i nostri lettori per il loro leale supporto e i nostri giornalisti, staff e consulenti per il loro impegno in questi 26 anni». In seguito è stato chiarito, secondo quanto riporta la Bbc, che la direzione del giornale ha deciso di interrompere le operazioni fin da subito, con l’ultimo quotidiano fisico che sarà quello del 24. 

 

A dare il colpo di grazia non sono stati i pesanti arresti del direttore di Apple Daily, Ryan Law, e dell’amministratore delegato di Next Digital, Cheung Kim-hung. Il 23 giugno, tra l’altro, è arrivato anche quello del principale editorialista, noto con lo pseudonimo di Li Ping, che nel suo ultimo articolo aveva scritto: «Continueremo a lottare fino alla fine». Il problema è la paralisi economica-finanziaria in cui il tabloid è stato spinto da Pechino visto che i beni congelati hanno un valore di 18 milioni di dollari di Hong Kong (2,3 milioni di quelli americani) e i suoi conti sono stati bloccati.

 

L’accusa è di aver cospirato con paesi o elementi stranieri per mettere in pericolo la sicurezza nazionale. Gli articoli incriminati sarebbero diverse decine, in cui verrebbe chiesto l’avvio di sanzioni internazionali nei confronti della Cina e di Hong Kong per la dura repressione messa in atto contro il dissenso interno. Articoli tra i quali ci potrebbero essere anche quelli di Laura Harth, coordinatrice del Global Committee for the Rule of Law “Marco Pannella” e collaboratrice di Apple Daily dall’ottobre 2020, che commenta: «È stato un attacco alla conoscenza, all’informazione, alla libertà di opinione. C’è una foto emblematica che è quella del 1° luglio dell'anno scorso, dopo l’entrata in vigore della legge sulla sicurezza nazionale. Tutti i giornali stampati di Hong Kong riportavano la stessa copertina a favore della legge. Tutti tranne uno che aveva una copertina diversa, di critica. Quella dell’Apple Daily».

 

A un anno dal varo di quella legge, si spegne così il principale giornale pro-democrazia nella città, stretto nella morsa di una Cina impegnata a inglobare anche Hong Kong sotto il suo ombrello autoritario. «Chiudere un giornale per censura è un qualcosa che ci riporta indientro di un secolo, in anni bui» è il commento di Stefano Pelaggi, docente presso l’università La Sapienza di Roma e membro di Geopolitica.info. Gli altri media e giornali nella città sono avvertiti. «Il primo effetto di questo attacco è quello che chiamiamo “chilling effect”. Vogliono, con questa continua minaccia, invitare gli altri media ad autocensurarsi per paura di reazioni», spiega Harth. 

 

E il sentimento della popolazione in questo momento è particolare, stretto tra il desiderio di libertà e il timore di reazioni. «Lo spirito della resistenza dei cittadini di Hong Kong c’è ancora e forse si è addirittura rafforzato, però allo stesso tempo la paura è tanta. Ormai sarà impossibile vedere le grandi manifestazioni a cui abbiamo assistito nei mesi e anni precedenti», continua Harth. Quelle proteste che sorpresero Pechino per la partecipazione e per la forza con cui furono portate avanti, come testimonia Pelaggi, che era a Hong Kong nel 2019, poco dopo le settimane più infuocate: «Le rivolte si erano decentralizzate, partivano da gruppi di 30-40 giovani in periferia che manifestavano e subito la popolazione scendeva in piazza per difendere quei ragazzi. Oggi in tutti gli adolescenti è presente questo spirito di ribellione ma il futuro del popolo della città è di difficile previsione». La repressione è dura ed è il motivo per cui non ci saranno più piazze piene e in movimento, secondo Harth: «Tutte le voci, tutti i principali organizzatori delle proteste sono finiti in carcere o in esilio forzato». Per questo la responsabilità passa all’estero, agli altri attori internazionali.

 

La portavoce del Servizio di azione esterna dell’Unione europea, Nabila Massrali ha dichiarato in una nota: «La chiusura a Hong Kong dell’Apple Daily mostra chiaramente come la legge sulla sicurezza nazionale imposta da Pechino venga utilizzata per soffocare la libertà di stampa e la libera espressione delle opinioni». Nel comunicato viene ricordato anche le libertà sancite dalla Legge fondamentale e gli impegni assunti dalla Cina per rispettare l’autonomia e i diritti di Hong Kong, tra cui proprio la libertà di stampa. Diritti che dovrebbero essere pienamente protetti e ripristinati. 

Ma per Harth la risposta deve essere più concreta: «Lo strumento pratico a disposizione sono le sanzioni individuali. Le frasi di rito vanno bene ma sono mesi che sentiamo i vari “monitoreremo” o “siamo preoccupati”. Ora invece è arrivato il tempo di agire». Più negativo invece Pelaggi: «Non penso ci possa essere una vera risposta oltre le dichiarazioni e le prese di posizione, non ci sono spazi reali o margini di manovra per un intervento esterno rilevante».