Battaglie del nostro tempo
Nella Hong Kong che brucia è l’ora della donna drago
La metropoli cinese e le rivolte per i diritti al centro di un romanzo che intreccia il cammino per l’autonomia femminile alla lotta per le libertà democratiche. Un’anticipazione de “La donna drago”
È dedicato “agli indomiti ragazzi di Hong Kong” il nuovo romanzo di Margherita Marvasi, giornalista e viaggiatrice, che da quasi vent’anni vive tra l’Italia e Zanzibar, da dove esplora i Paesi asiatici. Ed è tra le strade infuocate dalle rivolte contro gli attacchi della Cina alle libertà democratiche che l’autrice approda nel 2019. Il Porto Profumato lotta per scongiurare ciò che sta per accadere: l’introduzione della Legge sulla sicurezza nazionale, che porrà fine all’autonomia da Pechino.
La storia di Lavinia e di Marek, expat in una città tanto affascinante quanto tentacolare, si fonde alla repressione delle proteste, alle incarcerazioni, alla scomparsa di centinaia di ragazzi in rivolta. E il romanzo si trasforma in un appassionato, intenso faccia a faccia su cosa sia la libertà, a Oriente e a Occidente: sui limiti, sui costi per difenderla. Come sanno gli hongkongers, fiaccati da violenza, pandemia, censura: lo racconta, senza retorica e con coraggio, il documentario di Kiwi Chow, “Revolution of our times”. Presentato a Cannes, bandito in Cina, è ora finalmente sugli schermi italiani (Sabina Minardi)
***
Il giorno di San Valentino del 2018, a Taipei, la capitale di Taiwan, successe una cosa destinata a cambiare tutta la mia vita. Ma io allora non lo sapevo, non ne avevo idea, dato che ero altrove, immersa in altre faccende romane e d’amore, e quella piccola nazione insulare non rientrava nella mia personale geografia.
Lo capii soltanto un anno e mezzo dopo, il primo pomeriggio di un’estate umida e ardente, mentre camminavo, insieme a un milione di manifestanti che reclamavano i loro diritti, per le strade di Kowloon, il quartiere dello shopping di Hong Kong, e dal cielo piovevano gas lacrimogeni come stelle filanti. Fu lì, a Hong Kong, che imparai il valore della dignità e della forza. E quella lezione mi infuse un nuovo sguardo sul mondo, fu come una seconda nascita. Ma ci volle tempo e sofferenza perché si compisse: una specie di incubo, in cui mi ritrovai spettatrice di mondi terribili e senza regole; vidi cadere le persone che amavo, venni tradita, ingannata, e fui costretta ad attraversare, insonne, terre aride e solitarie. Notti buie, in cui dovetti fuggire, nascondermi, perdermi, mettere in discussione tutto quello che pensavo di sapere e, infine, ritornare sui miei passi. Intravedendo, a tratti, il crinale della vita. Finché, un giorno di sole, la disperazione si dissolse e realizzai di essere libera. Libera di muovermi e libera dentro. E cambiò tutto.
A guidarmi, come un faro, furono lo spirito e l’amicizia di Limi, una ragazzina di diciannove anni che rivendicava, come me, la propria identità, ed era disposta a tutto pur di non sacrificarla. Marciando al suo fianco, per le strade in fiamme di Hong Kong, vedendola combattere, durante quell’estate e poi l’autunno, mi resi conto che anch’io avevo una scelta: potevo arrendermi al risentimento e alla mia vigliaccheria, sentirmi inutile e finita, oppure riprendere in mano la mia vita, credere ancora una volta in me stessa e andare avanti. Fu un assoluto privilegio incontrare quei ragazzi fieri, indomiti, i loro sguardi determinati e pieni di vita. La loro volontà di non soccombere. E forse, più di ogni altra cosa, sentire la potenza della loro fragilità: armati solo di ideali, e qualche sasso – come Davide contro Golia – sfidarono un nemico troppo potente. Eppure scelsero di lottare, e diedero tutto.
[[ge:rep-locali:espresso:364270867]]
Quello che Hong Kong mi ha insegnato, alla fine, è che bisogna accendere la fiaccola della speranza, tenerla ben salda e battersi per quello che riteniamo giusto. E che quando una battaglia è giusta, va combattuta fino in fondo.
Ma torniamo indietro, a Taipei, il giorno di San Valentino del 2018. C’erano questi due studenti ventenni, hongkongers, Mei e Tao. Erano carini e innamorati e avevano deciso di passare un weekend romantico a Taiwan. Quando erano arrivati al Purple Garden hotel di Taipei, Mei era incinta di quattro mesi, e anche se la pancia non si vedeva, Tao lo sapeva. Avevano trascorso tre giorni a esplorare la città. Me li sono immaginati che ridevano e si tenevano per mano, tra i mercatini e i locali trendy suggeriti dalle guide turistiche. Lei con la gonna corta e lui con i jeans neri a gamba stretta. Una coppia di giovani in amore. Una delle tante.
Si svegliavano, facevano l’amore, poi si perdevano tra le strade della capitale, compravano qualcosa, si parlavano all’orecchio, e passeggiavano fino a tarda sera. Cenavano in qualche ristorante del centro che profumava di pesce alla griglia e andavano a letto presto, contenti di essere così vicini.
Mei, la sera prima del volo di ritorno, aveva comprato una grossa valigia rosa, semirigida, perché quella con cui era arrivata non era abbastanza capiente da contenere tutti i souvenir che avevano accumulato (...). All’una di notte, aveva mandato alla madre un messaggio confermandole che sarebbe atterrata a Hong Kong la sera successiva. Aveva spento l’abat-jour per mettersi a dormire. Tao era ancora sveglio e, per qualche motivo, insofferente. Non ho mai capito esattamente la ragione, ma finì che si misero a discutere, forse come fanno quelli che piantano grane solo perché inconsciamente spaventati all’idea di separarsi, dopo aver passato giorni di unione totale. Fatto sta che la notte di San Valentino avevano battibeccato e i toni si erano alzati fino al punto in cui Mei, mi immagino esasperata, aveva commesso un errore fatale, rivelando a Tao che non era lui il padre del bambino. Era incinta del suo ex.
Lui l’aveva guardata stralunato, spalancando gli occhi, incredulo. Non era sicuro di aver capito. Aveva balbettato qualcosa, senza articolare bene. Allora lei, in preda a un demone sciagurato, ebbe l’improvvida sfrontatezza di sbattergli il telefono sotto il naso e mostrargli un video in cui era nuda e gemeva mentre faceva sesso con l’altro ragazzo. Apriti cielo.
Tao ora tremava di rabbia, la salivazione era abbondante, e gli arti scattarono come quelli di una tarantola, veloce. Afferrò la testa di Mei e la sbatté ripetutamente contro la testata di ottone del letto. Una, due, tre, quattro volte, sempre più forte. Lei cercò di divincolarsi e, in un tonfo, finirono sul pavimento. Ne seguì una breve colluttazione finché Tao, travolto da qualcosa più grande di lui, le afferrò il collo con entrambe le mani, e lì in ginocchio, sopra di lei, strinse, strinse, sempre più forte, con le nocche che diventavano bianche e la bocca che gli tremava per lo sforzo. La strangolò. Forse senza rendersene conto. Forse solo per farla tacere.
Ecco, Mei smise di respirare.
A quel punto in lui avvenne una trasformazione portentosa, spaventosa. Prese la valigia rosa, la sdraiò a terra, accartocciò in qualche modo il corpo minuto di Mei, ce lo ficcò dentro e richiuse la cerniera. Dopodiché andò in bagno, fece pipì, si lavò le mani e andò a dormire. La mattina si svegliò intorno alle dieci e ordinò la colazione in camera per due, con uova strapazzate, caffè americano e frutta. Per la valigia rosa aveva in mente un altro piano. La trascinò sulla metropolitana, scese alla stazione di Zhuwei, ai margini settentrionali della città, e l’abbandonò dentro un grande cespuglio verde, ben nascosta. Le telecamere dell’albergo lo ripresero quando rientrò alle 18.30.
Un’ora dopo uscì di nuovo, questa volta col suo bagaglio. Come se niente fosse, si avvicinò a un ATM e prelevò l’equivalente di seicento euro con il bancomat di Mei. Poi sollevò una mano, fermò un taxi e si fece portare in aeroporto. Solo un mese più tardi, il tredici marzo, interrogato per l’ennesima volta dalla polizia cinese, Tao si dichiarò colpevole di omicidio e ricostruì tutta la storia.
Le autorità di Taiwan cercarono allora di ottenere la sua estradizione, per processarlo nel loro Paese, ma senza successo: le leggi di Hong Kong non lo permettevano. Così venne proposto un emendamento alla legge sull’estradizione che, se approvato dal parlamento locale, avrebbe avuto delle ricadute politiche su tutti gli hongkongers, consentendo di processare nella Cina continentale gli accusati di alcuni crimini gravi, come lo stupro e l’omicidio. Ma anche reati politici. Fu questa la miccia che accese le proteste. Era l’inizio di giugno e due milioni di persone si riversarono nelle strade affinché la legge venisse ritirata. Fu la più grande sfida popolare al presidente Xi Jinping. C’ero anch’io, al fianco di Limi, a marciare con loro.
2022 Giunti Editore S.p.A.