Pochi sanno e nessuno dice dove sia il corpo dell’ex rais. Che ha voluto lasciare di sé la patina della leggenda e la scia del timore del capo. Un’eredità di quarant’anni di dittatura: l’ambiguità della memoria che è l’ambiguità del Paese

Sono passati dieci anni dalla morte di Gheddafi. Dieci anni senza il corpo di Gheddafi, che resta spettro del passato, del presente e del futuro incerto della Libia.

Gli anniversari sono il tempo della resa dei conti, lo è stato il 17 febbraio che ha segnato i dieci anni dall’inizio delle proteste rivoluzionarie, lo è oggi, 20 ottobre, data che segna il decennale della morte dell’ex rais.

All’inizio delle rivolte Gheddafi si era impegnato a dare la caccia ai topi, i ratti – così li aveva chiamati – che avevano preso le armi e invaso le strade contro di lui.

“Vi darò la caccia - disse loro - centimetro dopo centimetro, stanza per stanza, casa per casa, vicolo per vicolo, persona per persona.”

 

Era affacciato alle finestre che davano sulla piazza Verde. Oggi piazza dei Martiri.

La reazione di Gheddafi alle rivolte era stata brutale, le forze lealiste avevano cominciato a bombardare indiscriminatamente le aree civili, arrestando i manifestanti e gli oppositori del regime, macchiandosi di delitti feroci, rapimenti, esecuzioni sommarie.

 

È intervenuta la Nato a mettere spalle al muro il rais e la sua cerchia, ormai isolati nella città di Sirte - città simbolo che al rais aveva dato i natali e il consenso – e fu proprio nella sua città natale, che Gheddafi si stava nascondendo, di casa in casa, di cava in cava, di bunker in bunker, come un topo, come un ratto, come quelli a cui aveva promesso di dare la caccia.

La mattina del 20 ottobre del 2011 aveva tentato con i suoi l’estremo tentativo di fuga: il figlio Mutassim, che stava difendendo la città con i suoi uomini, aveva ordinato al gruppo di lealisti rimasti intorno Sirte di abbandonare l’area del Distretto 2 con un convoglio di cinquanta veicoli armato, convoglio che venne colpito dalle bombe Nato che hanno incenerito dozzine di combattenti pro-Gheddafi.

I pochi veicoli rimasti intatti hanno raggiunto una vicina casa recintata, nei cui pressi si trovavano due tubi di drenaggio. È lì che le milizie di Misurata hanno trovato Gheddafi e i membri del suo convoglio, è lì che li hanno disarmati, brutalizzati e uccisi.

Da allora pochi sanno e nessuno dice dove sia il corpo dell’ex rais, il Fratello Guida, la Guida e Comandante della rivoluzione della Gran giamahiria araba libica popolare socialista, Guida Fraterna della Rivoluzione, il beduino prima alleato, poi terrorista, poi di nuovo alleato, poi dittatore da destituire.

Restano i segreti, la Libia ne è piena.

Se chiedi: Dov’è il corpo di Gheddafi? la gente sussurra. Tutti sanno, nessuno sa.

“Il luogo esatto lo conoscono solo le milizie di Misurata”, dice la gente.

“Lo sanno gli uomini di Salah Badi, che l’hanno portato via e trasportato in un luogo sconosciuto” mormorano.

Nessuno lo sa, o magari solo gli uomini della sua tribù, o forse è un segreto che viaggia, come ogni segreto, di bocca in bocca, casa in casa e si fa leggenda.

E forse, così in morte come in vita, Muammar Gheddafi ha voluto lasciare di sé, insieme, la patina della leggenda e la scia del timore del capo.

A Misurata, città costiera teatro del più lungo assedio della rivoluzione, le milizie anti Gheddafi hanno costruito il Museo della Guerra. È la prima cosa che i libici mostrano a chi arriva in città. Si trova lungo via Tripoli, sul palazzo di fronte è stata dipinta una colomba con l’ulivo di pace.

Le strutture sono ancora crivellate dai colpi d’artiglieria, le case ancora senza muri, senza tetti, con le lastre di metallo a coprire i crateri dei colpi di mortaio, le scale che non portano più da nessuna parte perché i piani superiori sono venuti giù, gli edifici più bassi bucati dai razzi. Intorno tra l’officina e il rivenditore di auto di lusso c’è il memoriale al 2011.

Che i libici, anziché nominare Museo della Pace, della Stabilità, della Rivoluzione, hanno preferito chiamare Museo della guerra.

All’esterno sono disposti i cimeli dei mesi di combattimento: le casse di munizioni, gli ak-47, una bomba da mezza tonnellata, i razzi, i mortai, le granate, i carri armati russi, il pugno che schiaccia il jet da combattimento americano preso dai rivoluzionari a Bab al Aziziya, l’aquila presa dalla brigata Salahdin nel deposito di armi di Gheddafi.

Il bottino di guerra delle milizie che hanno deciso di portare a Misurata non solo i cimeli militari, ma anche quelli personali del rais, la sua Magnum 357 Smith & Wesson, gli stivali di pelle, la Browning placcata d’oro, i suoi fucili d’assalto, la sedia intarsiata di vernice dorata e velluto verde. Poi, sulla porta e sulle pareti interne sono state apposte quattromila fotografie delle vittime dei combattimenti del 2011, i martiri della rivoluzione, i prigionieri di Abu Salim, il carcere dei prigionieri politici, il carcere della strage del 1996 quando in due giorni 1270 detenuti vennero trucidati dagli uomini di Gheddafi.

Le contraddizioni della Libia risiedono in questa istantanea: le immagini delle vittime del regime, le fotografie dei combattenti rivoluzionari, stese tutte intorno alla sedia, al trono di Gheddafi, trasportata alla fine della rivoluzione a Misurata come segno di vittoria.

La domanda, sospesa di fronte al Museo della Guerra, è però: la vittoria di chi?

È questa, forse, l’eredità di quarant’anni di dittatura di Muammar Gheddafi.

L’ambiguità della memoria che è l’ambiguità della Libia.

A guardarlo dieci anni dopo, quello che doveva essere il Museo per celebrare la nuova Libia sembra un altare alla nostalgia di Gheddafi, la ruggine che copre tutto pare aver smesso di glorificare le gesta dei rivoluzionari, e sembra nascondere il rimpianto di molti verso il regime, verso la stabilità.

“Sono ancora qui” sembra dire alla Libia, Muammar Gheddafi dal Museo della Guerra di Misurata, un museo che doveva celebrare la vittoria dopo quaranta anni di regime e finisce per onorare colui che è stato sconfitto.