Il parroco collabora con Mediterranea Saving Humans, l’associazione che soccorre i naufraghi, e s’è avvicinato tramite i centri sociali. Perché condivide l’impegno per gli ultimi e la lotta ai respingimenti

«In mare vedi contemporaneamente il collasso della civiltà europea e la sua rinascita». Don Mattia Ferrari è il cappellano di Mediterranea Saving Humans, associazione della società civile che svolge attività di monitoraggio, denuncia e soccorso nel Mediterraneo. Si è avvicinato a questa realtà grazie ai centri sociali bolognesi, con cui «condivide l’impegno accanto agli ultimi» nella lotta per la giustizia: «Li ho conosciuti, perché ospitarono un richiedente asilo senza casa che non trovava un posto dove stare». Già come seminarista, don Mattia dava assistenza a chi aveva deciso di migrare in Italia: «Li accoglievamo in parrocchia e li aiutavamo a integrarsi», ricorda.

 

Nel 2018, quando Mediterranea è stata fondata, don Mattia era viceparroco di Nonantola (in provincia di Modena). Ora è a Roma e frequenta l’università, nello specifico Scienze sociali. «I centri sociali mi hanno coinvolto per avvicinare la Chiesa alla missione di Mediterranea». Una missione che, secondo don Mattia, è comune a chiunque voglia aiutare il prossimo: «Non deve sorprenderci, perché la Chiesa è chiamata a camminare vicino alle persone di buona volontà».

 

La particolarità di Mediterranea, d’altronde, è proprio questa: l’aver unito soggetti diversi e spesso considerati distanti in un’unica piattaforma, che lavora in mare e in terra con attività di solidarietà per costruire una coscienza collettiva del fenomeno migratorio. «È nella stessa natura della Chiesa. Il mio compito è accompagnare in mare i miei compagni», aggiunge don Mattia.

 

La prima missione di Mediterranea è iniziata il 3 ottobre del 2018. La nave Mare Jonio è salpata dal porto di Augusta battendo bandiera italiana. La data non è casuale: nel 2013, quello stesso giorno, 368 persone morirono in un naufragio a 800 metri dall’isola dei Conigli, al largo di Lampedusa. Anche negli anni e nei mesi precedenti c’erano state altre vittime, ma una tragedia così non poteva essere ignorata. È stata proprio questa tragedia, infatti, a dare origine all’operazione di controllo dei flussi migratori finanziata dal governo italiano e dall’Unione europea: “Mare nostrum”, che nei 12 mesi successivi ha salvato la vita a oltre 160 mila persone grazie alle navi della Marina militare italiana.

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Di quell’operazione non c’è più traccia e il Mediterraneo è tornato a essere un cimitero di invisibili. Migranti, non persone, senza nome e identità. Nel 2021 l’Unhcr ha registrato 3.231 morti, nel 2020 quasi 1.900, nel 2019 intorno ai 1.500. Nella maggior parte dei casi pure sulle bare degli uomini, delle donne e dei bambini deceduti il 3 ottobre del 2013 non ci sono scritti nomi ma soltanto numeri.

 

«Nei soccorsi le persone vengono restituite alla vita», puntualizza don Mattia. Chi parte spesso scappa dall’inferno della Libia. È pronto a tutto, anche al sacrificio. «Gli equipaggi che salpano in mare e salvano queste persone rappresentano il volto migliore dell’Europa: il volto del riscatto, il volto di un’Europa lontana dalle logiche nazionalistiche e sorella degli altri popoli del mondo». Quest’Europa per don Mattia si costruisce e tuttora sopravvive grazie alle iniziative dal basso, dei cittadini e delle cittadine. «Noi non vogliamo più un’Europa colonizzatrice che si chiuda nella sua fortezza».

 

Durante le missioni in mare, l’equipaggio di Mediterranea ha assistito diverse volte alle intercettazioni e ai respingimenti delle imbarcazioni che cercano di raggiungere l’Italia da parte della cosiddetta Guardia costiera libica, il corpo armato che Palazzo Chigi finanzia e addestra. Ma tornare in Libia vuol dire tornare nei centri di detenzione: nei lager in cui non esistono diritti e in cui si subiscono costantemente torture. L’Europa e l’Italia lo sanno, ma si girano dall’altra parte.

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Dal 2017 il governo firma accordi con un Paese, la Libia appunto, che non ha mai ratificato la Convenzione internazionale di Ginevra del 1951, in cui viene definito il termine «rifugiato» e sono sanciti i diritti e i doveri da rispettare per garantire protezione. Il Memorandum d’intesa è stato rinnovato anche quest’anno: da quando è stato siglato, secondo i dati di Amnesty International, sono state riportate in Libia più di 85 mila persone.

 

«È facile proclamare a parole la fraternità universale. Questi ideali però devono diventare carne. Come possiamo dire di essere tutti fratelli, se le persone annegano e nessuno le salva, se sono riportate nei lager a subire quelli che l’Onu chiama “orrori indicibili”? Le parole non bastano», commenta don Mattia. Sono le azioni delle organizzazioni non governative e di chi in generale aiuta il prossimo a trasformare questi valori in carne. «Noi tendiamo la nostra mano».

 

A marzo don Mattia ha dovuto dare l’estrema unzione a un ragazzo detenuto in Libia. Racconta: «Si chiamava Sami. Ha provato a fare la traversata e per due volte è stato respinto. La seconda volta è stato deportato in un lager, dove per sette mesi ha vissuto in condizioni disumane. Quando hanno capito che stava per morire, l’hanno liberato. I suoi amici hanno provato a chiamare l’ambulanza, ma non c’era nulla da fare. Perciò hanno deciso di chiedermi una benedizione». In videochiamata è apparso un ragazzo scarnificato con gli occhi impietriti, terrorizzati, che parlava con un filo di voce. Sono i ragazzi come lui a essere vittime degli accordi tra l’Italia e la Libia: «Ho visto con i miei occhi cose che pensavo fossero consegnate al passato», dice don Mattia.

 

In Libia non conta la provenienza o l’età. Nei lager ci sono anche minorenni che non riescono a mettersi in contatto con le proprie famiglie: «A questi ragazzi gli Stati europei stanno rispondendo con l’indifferenza».

 

Don Mattia per ora non sta partecipando alle missioni in mare, perché a maggio è stato minacciato sui social da quella che lui stesso definisce la mafia libica: «Gestiscono la maggior parte dei respingimenti e dei centri di detenzione, ricoprono ruoli di primo piano e prosperano sui finanziamenti dell’Europa».

 

Le minacce sono arrivate da un account Twitter che ha aperto nel 2017 e che sistematicamente pubblica materiale sui respingimenti: «Lo fa ovviamente dalla prospettiva della mafia libica per cui i respingimenti sono soccorsi e i centri di detenzione sono centri di accoglienza». Per questo motivo don Mattia sottolinea che in diverse occasioni, anche da parte di esperti internazionali, questo account è stato considerato «portavoce della mafia libica».

 

«A un certo punto su questo account sono apparsi la mia foto, il mio nome e cognome». È accaduto anche al giornalista Nello Scavo. Per questi messaggi è stata aperta un’inchiesta dalla Procura di Modena, che ora però ha proposto l’archiviazione suscitando non poche polemiche per i toni e le parole utilizzate. «Non sappiamo se la mafia mi abbia attaccato perché sono cappellano di Mediterranea, perché dico che in Libia ci sono i lager o perché sostengo l’attivismo di chi vuole fuggire dai centri di detenzione».

 

Per don Mattia pensare che le ong possano lavorare insieme alla mafia libica è offensivo: «Questa propaganda è manipolatoria. Aiuta soltanto a diffondere una sensazione di pericolo nei confronti dell’altro, che diventa una minaccia: qualcuno da respingere». Oggi chi si occupa di soccorso in mare è di nuovo sotto attacco. Il governo Meloni sostiene che la presenza di associazioni e ong in mare favorisca le partenze dalle coste libiche verso l’Italia. È una tesi che è stata più volte smentita e che ora viene nuovamente sostenuta per limitare il lavoro degli equipaggi. Ma non esistono dati che ne dimostrino l’evidenza.

 

Probabilmente, se non ci fossero le ong, nel Mediterraneo e nelle prigioni libiche si morirebbe di più. Da quando è stata abolita l’operazione “Mare nostrum”, non c’è nessuna nave finanziata dall’Unione europea o dall’Italia che si occupi principalmente di soccorrere chi attraversa il mare. Ora l’obiettivo è diverso: salvaguardare le frontiere. Ripete don Mattia: «La vera accoglienza è prima di tutto fraternità. Chi migra deve avere la possibilità di farlo in modo sicuro, non come avviene adesso. Aprire i canali legali di accesso significa fare un’importante operazione di giustizia e combattere la mafia».