Il presidente chavista è stato rieletto con quasi il 68 per cento delle preferenze, ma l'astensione è stata altissima. La giornalista Marinellys Tremamunno fa il punto della situazione sullo Stato sudamericano devastato da una profonda crisi economica

Seggi semivuoti e un successo scontato. In Venezuela le elezioni presidenziali sono andate secondo copione: il presidente Nicolás Maduro è stato confermato ottenendo il 67,7 per cento delle preferenze, in un Paese fatto a pezzi dalla crisi economica, scosso da proteste represse nel sangue e sempre più isolato dal resto dell'America Latina. E il risultato in termini di affluenza testimonia la fine del sogno chavista: solo il 46 per cento degli aventi diritto ha votato, per l'agenzia Reuters l'affluenza sarebbe molto più bassa. «Non poteva che andare così, il Venezuela è governato da una dittatura» dice Marinellys Tremamunno, giornalista venezuelana che da diversi anni lavora in Italia come corrispondente della televisione messicana “Imagen Tv”.

Come si può spiegare la vittoria di Maduro nonostante la situazione di crisi che vive il Paese?
«Alle elezioni gli unici osservatori internazionali invitati erano quelli degli Stati “amici”. È una tornata elettorale senza alcuna credibilità, fatta solo per dare una parvenza di democraticità a un presidente che non ha più l'appoggio del suo popolo. I sondaggi dicono che oltre l'80 per cento dei venezuelani è contro Maduro. Spiegatemi come avrebbe potuto vincere senza brogli. Per le elezioni è stato usato un sistema elettronico di una società inglese che l'anno scorso è stata cacciata dal Paese, perché aveva denunciato delle irregolarità. La licenza del software è scaduta, mi chiedo come abbiano fatto a registrare i voti».

Sulla scheda elettorale la foto del presidente compariva dieci volte e c'erano solo tre altri candidati, nessuno con una reale possibilità di vittoria. Cosa è accaduto all'opposizione?
«I leader storici dei partiti che contrastano il governo sono finiti tutti in prigione o sono scappati all'estero. Inoltre l'opposizione si è spaccata: inizialmente tutti erano contrari alla nuova Assemblea costituente e alle elezioni regionali indette nel 2017. Si era creato un fronte unito. Poi qualche partito tradizionale ha cominciato a distaccarsi da questa visione, c'è chi ha deciso di partecipare invece di astenersi e la gente non ha più avuto fiducia in un unico leader».

L'anno scorso il Venezuela era una presenza costante nei mezzi di informazione di tutto il mondo. Ogni giorno c'era una protesta, spesso la polizia sparava e uccideva i manifestanti. Cosa è cambiato da allora?
«Le proteste di piazza si sono arrestate perché la polizia e i militari hanno vinto. La gente ha paura: dall'inizio delle manifestazioni ci sono stati oltre 12 mila arresti arbitrari e nelle carceri si contano almeno 330 prigionieri politici. Nel solo 2017 sono state uccise 165 persone. Il Sebin, il servizio bolivariano di intelligence, tiene sotto controllo chi prova a far sentire la propria voce. Basta dire qualcosa contro il governo e ci si ritrova gli agenti sotto casa. Qualche giorno fa c'è stata una rivolta nella prigione chiamata “El Helicoide”, che ospita diversi oppositori politici, la polizia è intervenuta e ha sistemato tutto con i soliti metodi brutali».

Qual è la situazione del Paese dal punto di vista economico?
«Un disastro. C'è un'iperinflazione terribile, i prezzi aumentano del 70 per cento ogni mese. Un pollo costa l'equivalente di un mese di stipendio base di un operaio, quasi nessuno riesce a comprarsi da mangiare ogni giorno. I supermercati vogliono denaro contante, quando qualcuno prova a pagare con il bancomat il prezzo di quello che compra viene subito duplicato o triplicato. La mia impressione è che siamo solo all'inizio, il peggio deve ancora arrivare. Sono stata a Caracas tre mesi fa: è sporca e triste, non è la città dove sono cresciuta da bambina».

In quanti sono emigrati?
«Le stime dicono che almeno 2 milioni di persone si sono riversate nei Paesi circostanti. Il ponte Simón Bolívar, al confine con la Colombia, viene attraversato ogni giorno da 50 mila persone: alcuni vanno per cercare cibo e medicine, molti altri scappano da una situazione che è diventata insostenibile. In Brasile l'agenzia dell'Onu per i rifugiati ha cominciato a creare dei campi di accoglienza per ospitare chi sta fuggendo».

Alcuni osservatori definiscono il Venezuela un “narcostato”. Cosa significa?
«Il Paese è in mano alle bande criminali di ogni genere, in particolare ai narcotrafficanti che hanno stretto degli accordi con alcuni alti funzionari del governo di Maduro. In questa maniera possono transitare in modo indisturbato nel Paese e portare avanti i loro affari illeciti. Nel 2016 due nipoti della coppia presidenziale sono stati arrestati dall'agenzia antidroga statunitense perché trasportavano sul loro aereo privato 800 chili di cocaina delle Farc».

Maduro non gode del sostegno popolare e tantomeno di quello di buona parte della comunità internazionale. Come riesce a mantenere il potere?
«Chi lavora nell'apparato burocratico riesce ad andare avanti grazie al sostegno dello Stato. Le alte sfere militari godono di benefit enormi rispetto al resto della popolazione: sono pochissimi gli ufficiali che hanno provato a fare qualcosa per opporsi e sono finiti molto male. Basti pensare a Óscar Pérez, il pilota di elicotteri ed ex poliziotto che lanciò delle granate sopra il ministero degli Interni e la Corte suprema: a gennaio hanno scoperto dove si nascondeva insieme ad alcuni suoi uomini e li hanno trucidati. Da quel momento nessuno si è più ribellato».

L'attuale presidente non sembra essere riuscito a proseguire sulla strada aperta da Hugo Chávez. La rivoluzione bolivariana ha fallito?
«Maduro ha ereditato una situazione che stava cominciando a deteriorarsi. Chávez è salito al potere in una fase economica fortunata per il Venezuela, era uno stratega e si è saputo vendere bene a livello internazionale: il prezzo del petrolio era alto e questo significava tanti soldi che lo Stato poteva usare a proprio piacimento, la sua visione piaceva agli altri leader dell'America Latina. Ma sono stati commessi errori enormi, a partire dal programma di espropriazioni dei terreni e delle aziende, finite tutte sotto il controllo statale e finanziate proprio con i proventi del petrolio. Quando i prezzi di quest'ultimo sono diminuiti non c'era più un tessuto economico in grado di sostenersi in modo autonomo ed è crollato tutto. L'attuale presidente non è all'altezza del suo predecessore, ma anche con Chávez le cose oggi non sarebbero migliori».