Il paese sta sprofondando nella guerra civile, ma la borghesia non è morta. E, tra un party e una partita a golf, è pronta a riprendere il potere

La telecamera è accesa, il microfono pronto. «Ho disegnato una donna latina ma discreta, che veste sexy senza essere volgare». Camicetta e gonna anni Cinquanta, Nabel Martins, 27 anni, due dei quali trascorsi a studiare fashion design alla Saint Martins di Londra, risponde sicura alle domande del cronista. «In fondo di questi tempi è meglio tenere un profilo basso: qui a Caracas non c’è proprio nulla da festeggiare».

In effetti, fuori, ormai è guerra civile. Solo nelle ultime due settimane di aprile, i morti negli scontri tra la polizia e i manifestanti anti governativi sono stati più di trenta. Ogni corteo - e ce ne sono quasi tutti i giorni - rischia di diventare un bagno di sangue, il presidente Nicolas Maduro ha deciso di usare il pugno duro per prolungare la sua agonia al potere. Quando non ci sono scontri di piazza, si fa la fila per il pane: sei o sette ore per comprarne un massimo di due forme. Per paradosso, quando si vede una coda davanti a un forno è considerato un buon segno, perché vuol dire che un po’ di farina è arrivata. Spesso, semplicemente, le saracinesche dei panettieri sono chiuse.
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Gli scioperi e le manifestazioni si susseguono, eppure al ristorante Pandanus della capitale Caracas si ritrova il bel mondo venezuelano. Si beve vino e si salutano i vip: il conduttore tv Carlos Briceño, l’ex miss Terra Alexandra Braun, l’onnipresente lifestyle influencer Titina Penzini. E Nabel, appunto, la disegnatrice di moda appena rientrata da Londra: «Tornare qui è stato uno choc, il Venezuela è sull’orlo del collasso e Caracas è la città più violenta al mondo. Dopo il tramonto si esce con il timore che possano sequestrarti. Ma lo stop alle importazioni ha alimentato la creatività, dando impulso ai giovani stilisti venezuelani come me».

La stilista ha ragione: Caracas è la capitale più pericolosa del pianeta, ma si combatte con inventiva e fantasia. Mancano shampoo e deodoranti? Li si produce artigianalmente. La carta per i giornali costa troppo? Ci si sposta sull’online. Al mercato non ci sono i prodotti che cerchi? «Adatto il menù a quello che trovo, utilizzando alimenti locali quasi dimenticati», spiega il cuoco Eduardo Moreno: «Non è un caso che a Caracas si stia imponendo una nuova generazione di chef come Carlos García del ristorante Alto e Francisco Abenante di Casa Bistró».
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Nel Venezuela di oggi chi può permettersi di entrare all’Alto o al Casa Bistró è una ristretta minoranza di privilegiati. Una élite che vive rifugiata nei quartieri di Altamira e Los Palos Grandes; i più ricchi hanno ville con telecamere e guardie armate alla Lagunita o al Country Club. La domenica visitano le costose gallerie d’arte a Los Galpones o il mercatino “100%chic” all’hotel Renaissance, organizzato da Titina Penzini. E la sera a cena, per non ostentare troppo, si servono di un giro di ristoranti clandestini a domicilio: 50 dollari a testa e lo chef cucina direttamente a casa tua. «Le mogli arrivano con i soldi cash, solo loro possono permettersi iniezioni di botox da cento dollari», spiega la dottoressa Sonia Roffé, 56 anni, pioniera della chirurgia estetica venezuelana. «Da me sono passate sette miss Mondo e sette miss Universo», rivela soddisfatta. Il venerdì pomeriggio da Sonia è un viavai di quarantenni che arrivano per il lifting del weekend. «Oggi i ricchi hanno meno soldi e mi chiedono cosa posso fare con quello che hanno nel portafogli: trenta, quaranta dollari, non di più», aggiunge. Per avere un’idea, trenta dollari in Venezuela sono lo stipendio mensile di un medico o un insegnante.

Come si è arrivati a tutto questo? Un mix di cause, come sempre. A iniziare dal petrolio, croce e delizia di un Paese che siede su un mare di oro nero forse più grande di quello saudita. All’inizio del sogno chavista, 17 anni fa, il barile oltre i cento dollari ha permesso crescita e pace sociale ma ha anche alimentato una dipendenza assoluta dal greggio. Dipendenza che, unita a sprechi, corruzione, eccessiva burocrazia e dissennate politiche economiche - oltre al barile sceso fino a 40 dollari, per poi risalire - è alla base del tracollo del Venezuela di oggi. Una nazione al crepuscolo, secondo le stime del Fmi: il Pil, dopo un calo del 18 per cento negli ultimi due anni, perderà un altro 4,1 per cento nel 2018; e l’anno in corso dovrebbe chiudere con un’inflazione del 720 per cento, il tasso più alto al mondo, che tuttavia raddoppierà nel 2017, sempre secondo le previsioni del Fondo monetario internazionale.

Il resto viene di conseguenza. Spesso manca la luce elettrica, l’acqua corrente è razionata e negli ospedali si muore per carenza di medicinali. Manca soprattutto il cibo: latte, uova, zucchero, olio e farina. Quando ci sono, vengono venduti a prezzi calmierati ma per acquistarli devi stare in fila per ore. Così si diffondono i “bachaqueros”, le formiche, quelli che rivendono i prodotti al mercato nero. La Arina Pan, la farina più diffusa, la comperano a 19 bolívar al chilo (meno di due euro) e la rivendono a 300 (quasi 28 euro); mezzo chilo di sapone al nero viene 37 euro.

E i ricchi? A Caracas vivono in una bolla di benessere isolata dalla realtà, un po’ come Villa Planchart che Giò Ponti costruì a metà anni Cinquanta: è sempre splendida, sulla collina, a dominare una città che cade a pezzi. «Non abbiamo neppure più una moneta», attacca Fran Beaufrand, 55 anni, fotografo di moda: «Il bolívar è carta straccia e se volessi cenare al ristorante dovrei uscire di casa con uno zaino di banconote. Ecco perché tutti usano la carta di credito». Beaufrand è nel salotto di casa, uno splendido loft sul parque Miranda. Sta scegliendo la camicia di seta per stasera, è invitato alla sfilata degli abiti firmati Delrayo. Due ore dopo è seduto con gli amici fra le gradinate di una ex fabbrica dismessa: luci, installazioni e abiti sgargianti hanno trasformato questo capannone in una splendida location. «Sembra il Grand Palais di Parigi, ma resta una fabbrica abbandonata. Ecco, Chávez fece lo stesso con il Venezuela: sedusse il paese, compreso il sottoscritto. Poi trasformò tutto in un reality show e si rivelò per quello che era: un incantatore di serpenti».

A fine sfilata la Caracas-bene si ritrova sorridente a ballare e scattare selfie, la crisi è un’eco lontana. Beaufrand saluta modelle e artisti, poi scambia due parole con la giornalista Paola Quinteros, direttore di Elestimulo.com. Alla fine si finisce tutti a cena a casa sua, in un appartamento nel quartiere borghese della Castellana. La casa è elegante, ricca di libri e opere d’arte contemporanea. Mentre il fidanzato di Paola prepara vino e formaggi, lei dice: «Fa male vedere il Venezuela in questo stato, ma è un momento storico, il cambio è vicino».

A cena da Paola c’è anche un simpatico avvocato di origini spagnole, Pedro Mezquita. Il mattino dopo, seduto nel giardino del Cayena, hotel del quale è socio, l’uomo sorseggia un analcolico e attacca: «L’abbiamo capito, il socialismo così non funziona. La classe media è polverizzata e viviamo con la doppia moneta come nella Cuba del “período especial”. Ma sono sicuro che ne usciremo». Nato a Madrid, Pedro è un iperattivo: ha interessi nella produzione cinematografica, è spesso ospite nei talk televisivi e a Caracas conosce tutti. Una domenica mattina arriva all’esclusivo Country Club, saluta una decina di camerieri, si siede con Michael Brysch. «I venezuelani ricchi amano la bella vita ma i soldi li tengono nelle banche americane, non fanno nulla per migliorare questo Paese», dice l’imprenditore tedesco, poi ordina un cocktail e si mette a chiacchierare con Diana Kaufmann, un’italiana sposata con un industriale del cioccolato.

«È il peggiore momento nella storia del Venezuela. I negozi chiudono, le aziende e le banche straniere se ne vanno, i nostri giovani emigrano e le compagnie aeree internazionali si rifiutano di atterrare qui. È una bomba pronta a esplodere», spiega Kaufmann seduta ai bordi del campo da golf. Certo, vista dal Country Club la crisi venezuelana ha il sapore di un moijto servito caldo. Fa schifo, ma va bene lo stesso. Vista dalla favela di Santa Cruz del Este la crisi ha la puzza della carne avariata che in molti, pur di mangiare, cercano tra i rifiuti.

Ecco perché un giorno Henrique Capriles, 45 anni, l’uomo che ha sfidato Maduro alle ultime presidenziali perdendo con il 49,5 per cento contro il 50,5, sbarca in questo misero quartiere, arrivando in scooter, tuta e cappellino da baseball per un comizio: «Ci sono nove milioni di poveri in Venezuela. Con loro Chávez aveva firmato un patto di fiducia che non ha mai rispettato», dice. «C’è bisogno di servizi pubblici efficienti, di assistenza sociale e soprattutto di una nuova economia: oggi tutto quello che consumiamo lo importiamo dall’estero. Non produciamo più nulla». Ma è in salita, l’attivismo di Capriles: una settimana fa le autorità gli hanno comunicato l’interdizione da ogni consultazione elettorale per 15 anni, il giorno dopo nel suo ufficio è scoppiato un incendio doloso. E il presidente Maduro ora parla di «convocare un’Assemblea Nazionale Costituente» per «riscrivere la Costituzione». Un golpe, secondo gli oppositori.

Nonostante tutto, a Caracas c’è chi crede ancora nel sogno socialista. «La crisi? Colpa della recessione mondiale, dei sabotaggi economici e degli attacchi finanziari americani», incalza l’ ex ministro chavista Gilberto Pinto Blanco. Nel suo bell’appartamento in Altamira, davanti a empanadas innaffiate con birra, la giornalista Milagros Socorro scuote la testa: «I bambini non vanno più a scuola, i pensionati mangiano una volta al giorno, il consumo di carne è tornato a essere quello degli anni Cinquanta. È questo l’uomo nuovo bolivariano?». Da fuori, si sente un coro di ragazzi: «El gobierno caerá/el gobierno caerá».