Il lancio dei missili Usa ha segnato un primo punto di svolta per il presidente americano. Su Facebook, Twitter e sui media mediorientali si continua a discutere della figura del nuovo presidente. Tra esaltazione e punti interrogativi

I 59 missili tomahawk sganciati venerdì scorso sulla base di Shayrat in Siria hanno diviso il mondo arabo.
Le reazioni nei giorni successivi all'attacco sono state varie ed alcune prevedibili sin dal primo minuto. L'Arabia Saudita con il re Salman ha accolto l'intervento USA nel conflitto siriano come un successo, seguita a ruota da Israele: «Israele - ha commentato Benyamin Netanyahu su Twitter poco dopo il bombardamento - sostiene pienamente la decisione del presidente Trump. La nostra nazione spera che tale determinazione nei confronti delle orribili azioni di Assad risuoni non solo a Damasco ma anche a Teheran, Pyongyang e altrove».

Il Presidente Trump viene sostenuto da chi non ha mai celato i propri interessi politici nel territorio siriano: l'Arabia Saudita che ha approfittato del conflitto per contenere la presenza sciita in Medioriente e Israele che da sempre si impegna a fronteggiare nemici come l'Iran e gli Hezbollah, legati a doppio filo al presidente Bashar al-Assad.

L'elemento nuovo, però, lo consegnano i social network e non la diplomazia internazionale. Poco dopo il lancio missilistico Usa, Twitter cinguettava felice sul nuovo eroe venuto dall'America.

Come riportato dalla BBC, alcuni utenti dei social hanno hanno iniziato a riferirsi al Presidente Trump come “Abu Ivanka”, ossia Padre di Ivanka, simbolo di affetto e rispetto. Altri hanno utilizzato photoshop nella maniera più creativa: al faccione di The Donald si è aggiunta la barba, simbolo religioso di misericordia per eccellenza. Gli hanno addirittura messo in testa un tarbush, tipico copricapo di lana rossa, aggiungendo la scritta “we love you”.

Qualche utente è stato più cauto, lasciandosi andare ad un «Donald Trump è un essere umano orribile. Ma ha fatto qualcosa di giusto». Questo tweet sembra appartenere al profilo di un giovane diciottenne siriano che si oppone sia ad Assad che all'Isis, così come al YPG, una milizia curda in Siria.

Dalle colonne di Al Jazeera tenta di fare il punto Malak Chabkoun, ricercatrice indipendente sul Medio Oriente e scrittrice residente negli Stati Uniti: «Una cosa è dire di essere soddisfatti per il grave danno arrecato ad una base del regime di Assad, un'altra è considerare Trump come l'eroe che il popolo siriano stava aspettando».

La ricercatrice nel suo editoriale sottolinea la solitudine di coloro che volevano il presidente siriano destituito. Fino alle settimana scorsa, infatti, nessuna alleanza è stata fatta per porre fine al regime di Assad, né tra i paesi arabi, né con l'aiuto delle forze occidentali. E non sarà ora Trump l'amico di questa rivoluzione.

Le reazioni dei social media dopo il raid Usa del 7 aprile ha dimostrato un altissimo numero di sostenitori della rivoluzione; anche i siriani colpiti a Khan Shaykhoun dall'attacco con il sarin hanno ritrovato una rinnovata speranza. «Molte di queste reazioni, in particolare negli Stati Uniti, sono servite unicamente a elevare Trump su un piedistallo che non merita. Per una volta, sarebbe saggio per coloro che sostengono la rivoluzione siriana e araba, di esercitare quella fiducia in se stessi e quella dignità dimostrata dai popoli arabi quando alzarono la testa e regalarono alla Primavera Araba l'apporto più grande: la consapevolezza che la libertà non arriverà mai per mano di coloro che non sono in grado di apprezzare loro stessi. Questo principio include Donald Trump».

Malak Chabkoun prosegue nel suo editoriale analizzando la fragilità dell'azione di Trump. Subito dopo l'attacco, infatti, i media statunitensi hanno segnalato che la Russia era stata avvisata in anticipo dell'imminente bombardamento. «Avrebbe avuto senso per gli Stati Uniti segnalare anche la fazione per conto della quale presumibilmente l'attacco è stato fatto, ovvero i siriani che combattono al-Assad sotto la bandiera del Free Syrian Army (FSA)».

Tuttavia, il colonnello Fares Lt al-Bayoush dell' FSA, che vede l'attacco come un passo positivo ma solo preliminare nella rimozione del regime, dice che nessuno del suo esercito è stato avvisato in anticipo del bombardamento. «Non solo, mentre è una buona notizia che i jet da combattimento, le munizioni e il carburante appartenenti all'esercito del regime siriano siano stati distrutti durante l'attacco, la realtà è che il regime siriano e la Russia stanno continuando a bombardare il paese proprio in questo momento. Nella sola giornata di venerdì, sono state uccise più di 13 persone, tra cui una giovane ragazza di nome Amira Skaff a Douma».

In altre parole, la denuncia della ricercatrice è che il rendere fuori uso la base aerea di Shayrat non è una strategia di politica estera che si tradurrà nella deposizione di Bashar al-Assad e una Siria libera. Si tratta di un piccolo schiaffo da parte degli Stati Uniti, talmente fragile che i funzionari americani nemmeno riescono a decidere se quello di venerdì scorso fosse un attacco una tantum o l'inizio di una strategia coordinata che ha come fine ultimo il rovesciamento del regime.

«Ringraziare Trump per aver attaccato Shayrat senza conoscere i passi che seguiranno è prematuro e degradante, nello stesso modo in cui è stato prematuro riporre speranza in un qualsiasi personaggio che si sia mai definito 'amico della Siria' semplicemente per aver tenuto discorsi vuoti sulla libertà. Discorsi a cui non sono mai seguite azioni per cambiare lo status quo».