Il presidente siriano è stato riammesso nella Lega araba, con un colpo di spugna sulle responsabilità nella guerra civile. Un’operazione guidata dal principe saudita Mohammad bin Salman

Condannato dalla Storia, senza contare la marea di accuse contro di lui depositate nelle cancellerie della giustizia umana, Bashar al-Assad, lo scorso 19 maggio, è stato riammesso con tutti gli onori e senza condizioni in seno alla comunità dei Paesi arabi, dalla quale era stato cacciato nel 2012: un anno dopo lo scoppio della guerra civile. I 500 mila morti, le città distrutte, i 13 milioni di profughi, interni o fuggiti all’estero, le torture, le sparizioni, i massacri, insomma, la tragedia in cui a partire dalla primavera del 2011 ha precipitato il suo popolo non sembrano aver provocato in lui alcun pentimento. Né i governanti arabi convocati per assolverlo hanno osato chiedergliene conto e ragione. Forse perché sarebbe stato facile ribattere che alcuni di loro erano stati fra i promotori di quell’immane carneficina.

 

Quello che, invece, è parso subito manifesto nella seduta della Lega araba – convocata a Gedda per la cerimonia del colpo di spugna sulle responsabilità del dittatore siriano verso il suo popolo – è stata la ferma determinazione del padrone di casa e architetto dell’operazione, l’erede al trono saudita, Mohammad bin Salman (o MbS, come viene chiamato sui giornali), a trasformare l’evento in una vetrina delle sue ambizioni personali. Le quali, in questo caso, si riassumono nel voler dimostrare al sospettoso alleato americano, decisamente contrario alla normalizzazione dei rapporti con la Siria, che adesso è lui, il principe trentasettenne diventato il regnante di fatto dell’Arabia Saudita, a decidere le sorti del Medio Oriente. Il parallelo invito al presidente ucraino Volodymyr Zelensky, con annessa offerta di mediazione tra Mosca e Kiev, sarebbe dovuto servire a supportare la sua nuova immagine di promotore di pace su scala globale.

 

Considerato dall’amministrazione di Joe Biden un alleato temerario e poco affidabile, macchiato dall’accusa di aver ordinato, nel 2018, l’uccisione del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, MbS ha saputo cogliere l’occasione della guerra in Ucraina per assumere un ruolo centrale al cospetto di un Occidente assetato di idrocarburi e costretto a liberarsi dalla dipendenza dal petrolio russo. Sul piano politico-diplomatico, non meno che su quello economico, il principe saudita ha – altro segno d’insubordinazione rispetto al protettore di Washington – aperto alla Cina in Medio Oriente. Ma, soprattutto, ha cercato di isolare i suoi grandiosi progetti di sviluppo economico e tecnologico – contenuti nel piano “Vision 2030”, il cui obiettivo strategico è di liberare il Paese dalla dipendenza dal petrolio come unica fonte di ricchezza – dalle tensioni e dalle dispute che rendono la regione uno dei crateri attivi dell’instabilità globale.

 

La svolta nella politica estera di Riyad nasce in questo contesto. Con un semplice giro di orizzonte, Mohammad bin Salman ha visto l’Arabia saudita circondata da forze ostili legate all’Iran: in Iraq, Qatar, Libano, Siria e nello Yemen, dove da otto anni Riyad è impegnata in una costosissima guerra contro la tribù sciita degli Houthi, vicini a Teheran. Parallelamente, è cresciuta la sua diffidenza verso la volontà di Washington di scendere in campo a difesa degli alleati arabi contro l’espansionismo iraniano.

 

È in questo contesto di crisi concatenate, ma riconducibili alla contesa per il primato tra le due potenze politiche, militari e religiose della regione, Arabia Saudita e Iran, che MbS mette in atto la sua svolta. Con l’aiuto della Cina in versione di mediatrice e, dunque, ancora una volta alle spalle degli americani, Riyad e Teheran ristabiliscono, dopo dieci anni di gelo totale, piene relazioni diplomatiche. Il principe, che voleva portare la guerra a casa degli ayatollah e considerava la Rivoluzione khomeinista la causa di tutti i problemi che affliggono il mondo arabo, dice adesso: «L’Iran è nostro vicino per sempre e non potremo sbarazzarci l’uno dell’altro».

 

Se l’accordo mediato dalla Cina può aiutare l’Arabia Saudita a trovare una dignitosa via d’uscita dallo Yemen (negoziati con gli Houthi per la pace sono in corso), la contropartita chiesta da Teheran a MbS è stata secca: Siria e Libano, i due più importanti territori del risiko iraniano. Sono state le milizie sciite che Teheran è capace di mobilitare da Bagdad a Beirut, senza trascurare la minoranza afgana degli Hazara, congiuntamente all’intervento della Russia di Vladimir Putin, a salvare il trono di Bashar al-Assad minacciato dalla guerra civile. Da allora, l’Iran ha goduto in Siria di una notevole libertà di movimento, osteggiata soltanto da Israele.

 

Ora è arrivato il momento di pareggiare i conti, riammettendo il rais siriano nel consesso arabo, ufficialmente per favorire il ritorno nelle loro case (distrutte) dei quasi sei milioni di profughi disseminati tra Turchia, Libano e Giordania e per permettere una più efficace assegnazione degli aiuti umanitari alla popolazione sconvolta non solo dalla guerra, ma anche dal recente terremoto al confine con il Nord della Turchia.

Quanto al Libano, terreno di scontro primordiale tra milizie e schieramenti divisi fra Teheran e Riyad, così come tra Washington e Parigi, si tratta di risolvere la devastante crisi economica e politica in corso dal 2019, consentendo al Partito di Dio, Hezbollah – sciita e alleato di Teheran, le cui milizie armate sono state decisive nell’invertire il corso della guerra siriana a favore di Assad – di mantenere la sua rendita di posizione in seno al governo libanese, senza suscitare scandalo nelle capitali occidentali. La “magia” di MbS è consistita nel far accettare la riabilitazione di Assad anche a quei Paesi arabi come Qatar, Kuwait, Giordania e Marocco che si erano detti contrari. Potenza della diplomazia del petrolio.