Scavi continui. Scoperte sensazionali. Nuovi musei. Iran, Egitto, Arabia Saudita accendono i riflettori sui popoli che vivevano prima dell'età di Maometto. Una tattica politica. Un richiamo per turisti. Ma anche un modo per ricostruire radici comuni intrecciate dalla tolleranza. Dalla newsletter de L’Espresso sulla galassia della cultura araba

L'evento più spettacolare l'ha firmato al-Sisi: una carovana notturna ha portato ventidue mummie di regnanti dell'Antico Egitto - anche Ramses II e la regina Hatshepsut - dal vecchio, fascinoso e caotico Museo archeologico del Cairo alla nuova - verrebbe da dire “faraonica” - sede del Museo Nazionale della civiltà Egizia, in via di apertura dopo anni di lavori.

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Non ha destato lo stesso interesse una notizia meno clamorosa ma più significativa: l'annuncio dei ritrovamenti degli archologi italiani e iraniani al lavoro nel sud dell'Iran nella città di Shahr-i-Sokhta, ribattezzata “Pompei d'Oriente”. E poche settimane fa, all'aperto per attirare più pubblico possibile malgrado le restrizioni per il Covid-19, due piazze centrali di Milano e di Roma sono state invase da gigantografie di Al-Ula, ieri capitale del regno dei nabatei, oggi centro del lancio turistico a cui l'Arabia Saudita sta lavorando con grande profusione di mezzi.

 

Non sarà sfuggito che dietro i tre eventi archeologici più clamorosi arrivati di recente dal mondo islamico ci sono tre regimi tra i più sanguinari della zona, responsabili di continue violazioni dei diritti umani che scandalizzano tutto l'Occidente. Certo, in parte è una coincidenza: la costruzione del nuovo museo alla periferia del Cairo è iniziata ben prima della sparizione di Giulio Regeni, e lo stesso vale per il rilancio di Al-Ula rispetto all'omicidio di Jamal Khashoggi. Ma solo in parte: la riscoperta dell'archeologia infatti risponde a una strategia precisa, è un richiamo mirato verso l'Occidente. Un richiamo interessato ma comunque prezioso.

 

Interessato per un fine politico, perché i Paesi occidentali apprezzano che si valorizzino i reperti preislamici - greci, romani e dei loro predecessori - ed economico, perché l'archeologia attira quei viaggiatori colti e benestanti che sono il sogno di ogni operatore turistico. Nel caso dell'Egitto in particolare tutto quello che richiama la civiltà dei faraoni – come la recente scoperta della “città d’oro perduta” di Aten, presentata come «il più importante ritrovamento dalla scoperta della tomba di Tutankhamon» - indica che il governo vuole «prendere le distanze dalla tradizione islamica del paese, e dalla politica islamista (Al-Sisi è al potere dopo aver rovesciato il governo dei Fratelli Musulmani)», come ha spiegato l'archeologo Leonardo Bison nel sito Finestre sull'arte. Dario Nicheri su East Journal si sofferma invece sul nazionalismo che nella Turchia di Erdogan non perde occasione per sottolineare la supremazia turca su tutti i popoli precedenti: si cerca insomma di far passare «l’idea dell’esistenza di popoli primordiali territorialmente stanziati in Anatolia, con un’identità collettiva prodotta attraverso le epoche e perfezionatasi con l’arrivo della stirpe turca».

 

Malgrado questi doppi significati, l'interesse per l'archeologia resta comunque prezioso, soprattutto quando viene da Paesi come l'Arabia Saudita che in passato erano del tutto disinteressati, se non proprio iconoclasti, rispetto alle testimonianze preislamiche: come se Maometto fosse comparso in una zona disabitata e ignorata dalla storia precedente, come scriveva Samir Kassir nel fondamentale saggio su “L'infelicità araba”.

 

L'archeologia del Medio Oriente è essenziale anche per conoscere la civiltà occidentale. È il messaggio fondamentale di “Negli scavi” di Eric H. Cline (Bollati Boringhieri): un abbiccì dello ricerca dell'antichità basato sulle esperienze di lavoro dello studioso americano in diversi paesi tra cui Israele, Egitto, Giordania. «I nostri tempi sono davvero stimolanti per fare l'archeologo», annuncia Cline all'inizio del libro: che spiega l'uso di strumenti diversi, dal piccone alla ricognizione LiDAR, e dimostra, en passant, quanto sia indissolubile il legame tra archeologia e Medio Oriente: dove si sono susseguite culture e popolazioni diverse, e dove l'abitudine alla “damnatio memorie” ha periodicamente cercato di cancellare le tracce dei predecessori. Il primo scopo degli scavi in Israele per esempio è generalmente la ricerca di prove dei racconti biblici, salvo poi trovare quasi sempre reperti interessanti delle dominazioni greche e romane e di popolazioni precedenti. Le tracce della civiltà islamica che si erano sovrapposte a questi resti più antichi vengono invece trascurate o distrutte, come ha denunciato di recente Kamal Aljafari in un'intervista al Manifesto.

 

C'è molto Medio Oriente in quell'atlante dell'archeologia che è “Scavare nel passato” (Carocci), dove Andrea Augenti racconta tutte le scoperte di cui si è occupato in una fortunata trasmissione per Radio3. Dalla Turchia di Çatalhöyük e Göbekli Tepe alla “Versailles d'Andalusia” di Medinat al-Zahra, è affascinante il viaggio in compagnia di un divulgatore che non ha dimenticato il libro che fece nascere il suo amore per l'antichità: il leggendario “Civiltà sepolte” di Ceram. In un capitolo torna il soggiorno di Agatha Christie in Mesopotamia, dove il marito Max Mallowan lavorava agli scavi di Ur: un modo per ricordare i pericoli corsi dai siti archeologici finiti nelle mani dell'Isis. L'esercito islamista li ha devastati irrimediabilmente seguendo due strategie: non solo ha distrutto statue e edifici sul posto (e ne ha ucciso i custodi), ma ha anche contrabbandato statue, gioielli e ogni tesoro che potesse finanziare la loro guerra contro ogni forma di tolleranza.

 

Gli scavi di Shahr-i Sokhta sono solo l'esempio più recente dell'intreccio pacifico di popoli che è alle radici della galassia islamica. La “Pompei d'Oriente” era all'incrocio di quattro grandi civiltà fluviali: Oxus, Indo,Tigri-Eufrate e Halil. C'è ancora molto da scoprire: «Abbiamo scavato appena il cinque per cento della superficie» ha detto Enrico Ascalone dell’Università di Göttingen, direttore artistico del progetto nato in collaborazione con l'università del Salento. Ma è già chiaro che la città non aveva mura difensive né un apparato militare. E non c'era traccia di culto di dei, «probabilmente perché senza un'elite al comando non c'era neanche bisogno di veicolare messaggi di propaganda», ha spiegato ancora Ascalone. Tutti segni di una tolleranza tra popoli e culture diverse che sarebbe bello poter rispolverare e ricostruire come i cocci di giare, sigilli e tavolette riemersi dagli scavi.