Guardia di Finanza e Procura di Milano chiedono a Meta 870 milioni di Iva. E ora altri Stati della Ue sollecitano documenti alle nostre autorità per allargare e replicare. Mentre le multinazionali digitali continuano a spostare miliardi nei paradisi tributari

Sorpresa: l'Italia è in prima linea nella lotta contro le grandi iniquità fiscali su scala mondiale. Tra Milano e Roma sono in corso diverse indagini collegate, giudiziarie e tributarie, che mirano a tassare quei colossi mondiali di Internet che finora sono riusciti a minimizzare le imposte. Sono giganti multinazionali che riescono ogni anno a trasferire nei paradisi fiscali decine di miliardi di profitti, sfuggendo legalmente ai sistemi impositivi previsti dagli Stati nazionali per finanziare sanità, istruzione, pensioni, giustizia e altre spese pubbliche.

 

L'importanza delle indagini italiane ha spinto diversi Paesi dell'Unione europea, negli ultimi mesi, a chiedere informazioni e documenti agli inquirenti di casa nostra, con l'obiettivo di replicare in altre nazioni il modello di istruttoria che finora ha preso di mira, in particolare, il gruppo Meta, che controlla social media come Facebook e Instagram. Il fisco italiano ha già contestato alla multinazionale statunitense il mancato pagamento dell'Iva, dal 2016 al 2021, per 870 milioni di euro. L'accusa è strutturata in modo da potersi allargare ad altre società di Internet. E non solo in Italia, perché l'Iva è una tassa di livello europeo.

 

Il colosso californiano guidato da Mark Zuckerberg nega alla radice di essere tenuto a versare questa imposta e aveva già contestato, anche in Italia, i presupposti legali della sua applicazione. Ma le prime sentenze si sono rovesciate come un boomerang contro Meta, ponendo le basi per il nuovo attacco del fisco. Tutto nasce da una multa applicata nel 2018 dall'autorità italiana per la concorrenza, su proposta del giurista Michele Ainis, per due accuse che a prima vista sembravano assimilabili a banali casi di pubblicità ingannevole. Secondo l'Antitrust, l'accesso ai social network viene presentato come gratuito, ma in realtà è pagato dagli utenti con la cessione dei propri dati personali, che il colosso di Internet poi rivende ad altre aziende con lauti guadagni.

 

Su questo presupposto Facebook si vede infliggere due sanzioni amministrative, da cinque milioni ciascuna, per non aver fornito informazioni adeguate, prima sull'acquisizione dei dati, poi sulla loro trasmissione e cessione. Il gruppo americano fa ricorso al Tar, che conferma solo la prima multa. Quel verdetto viene riconfermato nel 2021 dal Consiglio di Stato, che rende esecutiva la sanzione di cinque milioni e ne cristallizza la motivazione: l'iscrizione al social network non si può considerare gratuita, appunto perché comporta lo scambio dei dati personali, che hanno un valore economico. Quindi è una «operazione commerciale» paragonabile a una «permuta», cioè a un baratto.

 

La Guardia di Finanza di Milano, a quel punto, apre un'indagine fiscale fondata proprio su quella sentenza definitiva: l'Iva, infatti, si applica anche sulle permute. Il problema, però, è calcolarne il valore: a quanto ammontano i ricavi accumulati dal gruppo di Facebook vendendo i dati degli italiani? Gli investigatori del nucleo di polizia finanziaria li quantificano con una stima prudenziale: per logica economica, devono almeno pareggiare i costi affrontati da Meta per operare nel nostro Paese. Il conto totale, dal 2016 al 2021, è di oltre quattro miliardi di euro. Accertata così la «base imponibile», diventa possibile applicare la normale aliquota Iva del 22 per cento. Il risultato finale è proprio la cifra che fu anticipata in febbraio da un articolo del Fatto Quotidiano: 870 milioni.

 

Il gruppo Meta, interpellato dal Sole24Ore, ha replicato di essere «fortemente in disaccordo con l’idea che l’accesso degli utenti alle piattaforme online debba essere soggetto al pagamento dell’Iva». Per il resto, ha aggiunto un portavoce, «rispettiamo tutti gli obblighi derivanti dalla legislazione italiana ed europea» e «paghiamo tutte le imposte richieste in ciascuno dei Paesi in cui operiamo». Secondo gli avvocati della multinazionale, l'applicazione dell'Iva sarebbe stata esclusa già nel 2018 a livello europeo, con un parere favorevole fornito da un apposito comitato alla Commissione di Bruxelles. La sentenza dei giudici amministrativi però è successiva ed è diventata inoppugnabile proprio per l'attività di Facebook in Italia. Ma altri avvocati e giuristi, anche italiani, difendono ancora oggi la multinazionale con una tesi che si può riassumere così: l'utente offre dati grezzi, mentre Meta li lavora e riaggrega, quindi vende un prodotto diverso. Dunque lo scambio «non integra una permuta», per cui addio Iva. Come molte altre norme fiscali, anche queste sembrano scritte su tessuti di lana caprina.

 

La premessa fondamentale sull'applicabilità dell'Iva condiziona anche l'indagine penale, che era stata aperta dai magistrati italiani della Procura europea e ora è gestita dai pubblici ministeri di Milano. Il reato ipotizzato, infatti, è «omessa dichiarazione dell'Iva». A livello fiscale, il caso è affidato all'Agenzia delle Entrate, che ha avviato altre istruttorie dello stesso tipo: se le accuse a Meta dovessero reggere, insomma, l'indagine potrebbe essere replicata per altre società che allo stesso modo offrono servizi in apparenza gratuiti, in cambio dei dati. Alcuni big digitali, come Google e Spotify, sono corsi ai ripari da tempo, organizzando accessi a pagamento e formule «premium». È un problema di portata europea: non a caso Guardia di Finanza, Agenzia delle Entrate e Procura di Milano sono state contattate dalle agenzie fiscali dei più importanti Paesi della Ue.

 

La questione è anche politica. L'Unione europea ha approvato da anni una direttiva per tassare i ricavi lordi ottenuti dai giganti del web in ogni nazione. L'Italia aveva varato un'apposita «imposta sui servizi digitali» con una legge del 2017, come altri Paesi europei, ma la sua applicazione è stata rinviata. Applicare l'Iva potrebbe essere una soluzione semplice e immediata. Per questo tutti guardano alle indagini italiane. La questione si interseca con la super multa da oltre un miliardo contestata a Facebook per la trasmissione dei dati europei negli Stati Uniti. Dove la sfida politica tra il presidente democratico Joe Biden e gli avversari repubblicani si gioca anche sui finanziamenti elettorali e sul potere di lobby delle multinazionali.

 

In attesa di sapere chi vincerà questa grande partita legale e politica sulle tasse ai big di Internet, in Italia la pressione fiscale resta superiore al 43 per cento. Significa che per ogni 100 euro di redditi lordi, l'italiano medio ne versa più di 43 in tasse. A queste si aggiungono i contributi per le pensioni e la previdenza. Ogni italiano onesto deve quindi sborsare più di metà dei ricavi del proprio lavoro, anche per coprire le ruberie degli evasori, che secondo la Banca d'Italia sottraggono ogni anno circa cento miliardi di entrate statali. Con i soldi rimasti, il cittadino può finalmente fare acquisti, ma anche sulle spese deve pagare l'Iva, che è una tassa sui consumi: viene anticipata da imprenditori e commercianti, ma si scarica sul prezzo finale dei prodotti.

 

Il confronto con i giganti di Internet è sconfortante. Fino a pochi anni fa, i colossi del web non pagavano nessuna imposta all'Italia. Una decina di anni fa la Procura di Milano, sotto la guida dell'ex pm di Mani Pulite Francesco Greco, ha cominciato ad aprire robuste indagini fiscali, accusando le maggiori multinazionali di tenere nascosta la loro filiale italiana (chiamata in gergo «stabile organizzazione») per non dichiarare alcun reddito e azzerare così le tasse. Per evitare i rischi di un processo penale, anche i colossi di Internet hanno deciso di patteggiare, siglando un accordo («accertamento con adesione») con l'Agenzia delle Entrate. Apple, alla fine del 2015, ha versato al fisco italiano 318 milioni di euro. Google, nel 2017, ne ha pagati 306, Amazon 100. Facebook, nel 2018, ha sborsato più di cento milioni. Nel 2022 anche Netflix ha risarcito oltre 55 milioni.

 

Siglando quegli accordi fiscali, le multinazionali si erano impegnate a regolarizzare le filiali italiane e a pagare tutte le tasse future. L'ufficio studi di Mediobanca, l'anno scorso, ha pubblicato un rapporto che mostra com'è andata a finire. Nel 2021, in Italia, Meta ha dichiarato ricavi per oltre 343 milioni e ne ha pagati meno di 3 di tasse. Le dieci maggiori società italiane controllate da Amazon nel nostro Paese, secondo lo studio di Mediobanca, hanno incassato oltre 2,8 miliardi e versato imposte sui profitti per circa 35 milioni. Microsoft ha fatturato 925 milioni e ne ha sborsati 22 di imposte dirette. Google-Alphabet ha avuto ricavi per 728 milioni e ne ha pagati otto di tasse.

 

Un portavoce di Amazon ha precisato a L’Espresso che il gruppo paga regolarmente l’Iva e che nel 2021 ha versato al fisco italiano in totale, tra imposte dirette e indirette, oltre 751 milioni di euro: più del doppio dei 345 milioni pagati nel 2020. Sempre nel 2021, i ricavi complessivi delle attività di tutte le società di Amazon in Italia sono stati di oltre 8,75 miliardi, il 21 per cento in più dei 7,25 miliardi incassati del 2020. Nello stesso anno gli investimenti totali hanno raggiunto i quattro miliardi, con 609 milioni di euro di spese in conto capitale, cioè per infrastrutture di distribuzione, uffici e centri dati.

 

Dopo e nonostante i patteggiamenti fiscali con l'Italia e altri Stati della Ue, come Francia e Germania, diversi giganti di Internet hanno anche continuato a spostare somme enormi nei paradisi fiscali, spesso attraverso nazioni europee conniventi come Irlanda e Lussemburgo. Solo dal 2019 al 2021, come si legge nel rapporto di Mediobanca, il gruppo Microsoft ha evitato di pagare tasse per 6,9 miliardi di euro, Google-Alphabet per 5,2, Meta-Facebook per 3,6 miliardi, approfittando legalmente di regimi a bassa tassazione. I più furbi del pianeta sono i cinesi di Tencent, il colosso dei videogiochi e dei social asiatici, che nello stesso triennio ha trasferito più di 13,4 miliardi tra le Isole Vergini Britanniche e le Cayman, dove le società e i loro azionisti non pagano alcuna imposta: tassazione zero.