Per aiutare bar e ristoranti si è permesso agli esercenti di stravolgere le città. Ma nessuno mette mano ai veri mali del settore come paghe basse e in nero

Fra bar, ristoranti, strutture di accoglienza, ci sono più sfumature di nero e di grigio di quanto ne contenga una fortunata serie di libri erotici. Ma le sfumature non si adattano al discorso politico e sui pubblici esercizi in età di pandemia le opinioni sembrano piuttosto adatte a una guerra di religione.


Secondo gli schieramenti, l’esercito dei pubblici esercenti è un’armata barbarica di evasori fiscali, sfruttatori del lavoro, parassiti da ristoro, accaparratori di spazi urbani, complici di movide criminali, opportunisti dediti a socializzare le perdite e privatizzare i profitti oppure una colonna sbandata di oppressi, investiti in prima linea dal fuoco della pandemia, assediati dagli avvoltoi delle organizzazioni criminali, vittime dell’esosità dei locatori nonostante il loro apporto al pil, dalla piccola trattoria al grande museo, dalla pensione di Romagna all’albergo cinque stelle lusso su Riva degli Schiavoni a Venezia valga il 13 per cento del prodotto interno lordo.


I due governi del Covid-19 non hanno lesinato aiuti. Benché in ritardo, nel 2020 sono stati erogati 9 miliardi di euro e per l’anno in corso se ne aggiungeranno altri 15.


Ciò non toglie che i dati restino terrificanti. Secondo Confesercenti, tra il 2020 ed il 2021, il commercio al dettaglio, i pubblici esercizi e le attività ricettive hanno registrato complessivamente un saldo negativo tra nuove iscrizioni e cessazioni di 52.310 unità. Nel 2020 280 mila lavoratori indipendenti sono in povertà assoluta, 95mila in più rispetto al 2019, quando erano 185mila.


Dal marzo dello scorso anno, la spesa delle famiglie è diminuita complessivamente del 9 per cento, con punte del -11 per cento nel non alimentare. Nello stesso periodo, l’e-commerce ha messo a segno una crescita del 40 per cento delle vendite. Nelle fasi di chiusura più restrittive le vendite online hanno goduto di una posizione di monopolio di fatto, visto che negozi erano chiusi per limitare i contagi. Bisogna aggiungere al contesto il fenomeno iniziato appena prima del periodo pandemico e amplificato dai lockdown, cioè l’asporto organizzato attraverso le piattaforme digitali che è cresciuto del 20 per cento superando i 700milioni di euro di valore di mercato.


In tempi di turismo normale i 334 mila bar e ristoranti sono tanti (1 su 181 residenti, il tasso più alto in Europa). In tempi di Covid è un’offerta che non ha senso.


Questo elenco di disastri ha giustificato la precedenza assoluta al malato in codice rosso, a costo di creare distorsioni che si vorrebbero momentanee, se non fosse che in Italia nulla è più irreversibile del provvisorio. Nei quartieri più animati, come Trastevere a Roma o il Sempione a Milano, i residenti che prima non dormivano ora nemmeno parcheggiano perché i tavolini sono dovunque e, a volte, sono stati sgomberati a forza perché circondavano i pali del trasporto pubblico dell’Atac o dell’Atm. Le forze dell’ordine sono sovrastate dalle risse e i comuni si regolano in base a un’autonomia federalista che ha già creato disastri nelle fasi acute del contagio. Puntuale come un tormentone estivo, è tornato il tema dei fannulloni.


«Sono bastate le dichiarazioni provocatorie di quattro o cinque imprenditori», dice Fabrizio Russo, uno dei cinque segretari nazionali della Filcams-Cgil, «per fare esplodere l’esasperazione dei lavoratori. Le rilevazioni Inps hanno sottolineato che non esiste correlazione fra reddito di cittadinanza e mancanza di personale. In realtà, il tema è ciclico e precedente alla pandemia. Noi abbiamo un panorama molto vario di lavoratori stagionali, somministrati, a chiamata, esternalizzati, a tempo determinato, magari con lettera di assunzione da venti ore a settimana che diventano ottanta, quando la lettera di assunzione c’è. Quando si parla di riforme chieste dal Pnrr, si parla sì di cambiare la burocrazia ma anche di lotta al lavoro sommerso. Ma negli anni non abbiamo avuto grandi riscontri da politica e istituzioni. Abbiamo discusso di turismo con il Mise, con il Lavoro, con l’ex Mibact, con l’Agricoltura, ma a oggi non abbiamo avuto convocazioni dal nuovo ministero».


Il nuovo ministero, con portafoglio, è appunto quello del Turismo ripristinato dal governissimo di Mario Draghi dopo oltre un quarto di secolo e affidato al leghista Massimo Garavaglia, esponente di un partito vicino all’ala più becera del settore, quella che condanna la guerra al contante, fa l’occhiolino al nero e denuncia il reddito di cittadinanza come unico responsabile della penuria di camerieri e baristi.


«Il dialogo con il ministro è buono ma è a una fase iniziale», dice Patrizia De Luise, presidente di Confesercenti e imprenditrice in proprio. «Insieme dobbiamo approfittare del Pnrr per dare al settore una visione di insieme condivisa da tutti. A differenza dei grandi centri commerciali, le imprese di prossimità sono in linea con l’economia verde, non consumano territorio ed evitano la desertificazione urbanistica delle aree periferiche. Poi è chiaro che la moda di aprire un ristorante deriva dalla tendenza ad andare dove ci sono, o dove si crede che ci siano, le vacche grasse. Cucinare bene non significa fare impresa. Eppure molti hanno investito le liquidazioni senza il sostegno di una formazione adeguata. Con la pandemia si è aggiunto il tema del caro affitti, che ha costretto molti alla chiusura. Una volta c’era la cedolare secca anche per il nostro settore e bisogna reintrodurla insieme al credito di imposta. Diversamente gli spazi sfitti saranno occupati da chi ha soldi da riciclare. Sulle infiltrazioni e sui tavolini selvaggi siamo noi i primi a chiedere più controlli».

CONTROLLI ZERO
Di fronte ai controlli, invocati da tutti ma di fatto irrealizzabili e spesso sconsigliati per non intralciare la ripresa, c’è l’ostacolo aggiuntivo delle autonomie locali. Ogni comune ha le sue regole per aiutare i titolari di ristoranti e bar ad aumentare la capienza all’aperto. L’Anci ha emanato delle linee guida generali. Ma poi ogni sindaco ha deciso per conto suo. A Roma è stato consentito di incrementare l’area all’aperto per sedie e tavolini fino al 70 per cento in più rispetto all’autorizzazione vigente fuori dal centro storico e al 50 per cento nei siti Unesco. A Bari l’aumento è stato consentito a tutti fino al 50 per cento. A Firenze gli ampliamenti sono stati resi possibili fino al 25 per cento della superficie già autorizzata negli spazi pedonali e nelle aree del centro storico e fino al 50 per cento nel resto della città.

A Bologna il Comune ha consentito di poter realizzare dehors un po’ ovunque, anche nei giardini pubblici e nelle aree verdi, dove prima era vietato: i locali che già avevano dehors hanno potuto raddoppiare la superficie fino a un massimo di 30 metri quadrati. A Milano è stato approvato un nuovo regolamento, in vigore fino al 2022, con un iter semplificato sulle occupazioni di suolo pubblico per mettere tavoli, sedie, ombrelloni, tende e fioriere su aree a verde, marciapiedi, carreggiate e isole pedonali. Secondo la Fiepet Confesercenti nel 2021 le imprese della somministrazione hanno allestito «per il consumo nuovi spazi esterni per un totale complessivo di quasi 750mila metri quadri, in grado di ospitare 180mila tavoli». «Un risultato ottenuto grazie alla sollecita collaborazione dei Comuni, che in tutta Italia hanno semplificato, accelerato e ridotto o cancellato le tariffe di occupazione del suolo pubblico», dicono dall’associazione di categoria. Il numero maggiore di nuovi dehors, gazebi e spazi esterni è stato autorizzato soprattutto nelle grandi città, in particolare a Roma (quasi 65mila metri quadri in più), a Milano (40mila mq) e Napoli (38mila mq). Per tutti i Comuni il vero tema è quello dei controlli, pochi e sporadici. Così spesso gli spazi occupati sono stati più che raddoppiati in molti casi e senza farsi troppi problemi.

CERCASI CAMERIERE DISPERATAMENTE
Albergatori e ristoratori lamentano con forza la mancanza di personale qualificato da assumere per i mesi estivi. «Un tema molto delicato», dice Nico Torrisi, presidente di Federalberghi Sicilia e titolare dell’hotel Baia Verde tra Catania e Aci Trezza. «Anche offrendo buone paghe abbiamo ricevuto risposte negative. Colpa del rdc, che garantisce 700 euro in media e che quindi non rende vantaggioso lavorare per 400 euro in più. Questa è la verità, al di là di imprenditori che offrono paghe da fame. Anche offrendo più di mille euro al mese per la stagione estiva molti rifiutano. Inoltre abbiamo un secondo problema: quello del personale qualificato. Non tutti possono improvvisarsi camerieri, responsabili di sala, addetti all’accoglienza o bagnini».


C’è però un altro motivo che porta molti percettori di reddito a rifiutare proposte di lavoro stagionale ed è quello della rigidità della misura e dell’assenza di Centri per l’impiego (Cpi) davvero funzionanti. «Molti temono di uscire dal rdc perché non hanno fiducia nella burocrazia italiana, tra Inps e ministero del Lavoro che cambiano spesso le regole in corsa e sono lenti nello smaltire le pratiche», dice Salvo Barone, titolare del Caf Asia nel centro storico di Palermo che da solo ha “lavorato” 1.500 domande di reddito di cittadinanza.

Una tesi confermata da Emanuele Scalici, 33 anni, palermitano, sposato e senza figli, che oggi riceve 800 euro al mese come rdc. «Non è vero che non vogliamo lavorare, io nella mia vita ho fatto di tutto, dall’operaio edile all’addetto alle pulizie in albergo», dice Scalici, «ma come faccio ad accettare un lavoro di tre mesi sapendo che poi rischio di restare fuori dalla misura per chissà quanto tempo? L’Inps non è veloce nel fare i calcoli e chissà quanti mesi ci vorrebbero poi prima di essere riammesso al reddito e all’assegno da 800 euro al mese. Ma c’è di più: non ci sono regole chiare su come verrà calcolato l’eventuale stipendio stagionale per poter fare poi la domanda di rdc per il prossimo anno. Temo di essere messo fuori dalla misura perché magari poi per l’Inps quei tre mesi di lavoro mi fanno superare la soglia minima per accedere agli aiuti. Insomma, il problema è burocratico».


La burocrazia, come il maggiordomo dei gialli inglesi, incassa l’ennesima condanna. Da un pezzo si è deciso che i piani di commercio comunali, che vietavano troppi esercizi dello stesso tipo nella stessa strada, erano limiti burocratici intollerabili alla libertà d’impresa. Il risultato si osserva a Milano, via Pacini, in zona Politecnico: tre pizzerie al taglio in fila, due nuove. Con gli studenti in Dad quanto reggeranno? E se una chiude, sarà davvero colpa della burocrazia e dei giovani scansafatiche o di un paese che ha puntato più sulle enoteche che sulla ricerca?