Algeria e Oman. Egitto e Libia. Giro del mondo con i protagonisti dei riconoscimenti più importanti del mondo arabofono. Assegnati nei giorni della Fiera del libro della capitale emiratina

Zakìa è una donna giovane e bella. Fa la cantante e la ballerina in un night-club nel sud dell’Algeria. Ma un giorno viene trovata morta, assassinata da qualcuno che sembra incarnare la disapprovazione dell’intera società. E l’inchiesta su questo delitto diventa il microcosmo in cui si riflette un Paese che, in quel 1988, precipita nella guerra civile. «Ho voluto raccontare come l’islam politico ci ha cambiati, come siamo diventati criminali», spiega Said Khatibi, l’autore di “La fine del deserto”, in margine alla premiazione dello Sheikh Zayed Book Award, ad Abu Dhabi. Si tratta di uno dei due premi più importanti del mondo arabo. L’altro è l’International Prize for Arabic Fiction, chiamato il Booker Prize Arabo perché è nato in accordo con il premio inglese.

 

Entrambi sono stati consegnati nella capitale degli Emirati Arabi Uniti in occasione della Fiera internazionale del libro. Una accoppiata che dà l’idea di quanto gli Emirati stiano investendo nello sforzo di trasformare la loro immagine da Paese del petrolio a Paese della cultura.

 

Sette gli intellettuali scelti dalla giuria guidata da Ali Bin Tamim. Se Khatibi, con il suo giallo storico, è quello che sembra più adatto a raggiungere il pubblico occidentale, il più famoso per il mondo arabo è l’iracheno Ali Jaafar Alallaq, padre nobile della letteratura araba premiato per l’autobiografia “Dove mi porti, poesia?” Gli altri premi riguardano la saggistica: si va dallo studioso francese Mathieu Tillier con “L’invenzione del Cadi”, saggio sulla «giustizia di musulmani, ebrei e cristiani nei primi secolo dell'islam», al tunisino Chokri al Saadi, che ha tradotto in arabo “Espressione e significato” del filosofo americano John Searle. Per finire con il saggio della tunisina Jalila Al Tritar su “L’opinione delle donne, studi sulla scrittura autobiografica delle donne arabe”, e con il riconoscimento all’egiziana Fatma Elboudy per la sua casa editrice El Ain, specializzata in divulgazione scientifica e «lancio di nuovi talenti». Personalità culturale dell’anno è l’egiziano Omar Khairat, una specie di “Ennio Morricone arabo” che, dopo una formazione da musicista classico ed esperienze come batterista in una band rock, ha firmato per decenni colonne sonore per cinema e serie televisive egiziane.

 

Trentotto anni, nato a Boussaâda, Khatibi vive a Lubiana dal 2016: era passato da lì nel corso della preparazione del suo reportage “L’inferno di Sarajevo”, che confronta la guerra civile algerina e quella nella ex-Jugoslavia, e ha deciso di trasferirsi. Il suo giallo storico è agli antipodi rispetto al romanzo premiato dall’International Prize for Arabic Fiction. “L’esilio del rabdomante” di Zahran Alqasmi racconta la vita di un uomo legato fin dalla nascita al rapporto con l’acqua, che lo segna prima con la morte di suo padre e di sua madre in due diversi incidenti, poi con il dono che lo rende prezioso per la sopravvivenza del suo villaggio, nel desertico Oman. Un romanzo dallo stile poetico (l’autore ha pubblicato diverse raccolte di versi) e dalla trama lontana dalla politica: forse per questo è stato scelto dalla giuria in una sestina in cui si parlava del destino dei tuareg (“Siccità” di Siddik Hadj-Ahmed), dell’Iraq lasciato nel terrore dalla partenza degli americani (“La pietra della felicità” di Azher Jirjees), dell’impossibilità di essere se stessi in un’Arabia Saudita trasfigurata dal realismo magico (“La parte più alta dell’orizzonte” di Fatima Abdulhamid). C’è spazio anche per la tragedia degli africani che cercano di entrare negli Usa (“Racconti dalla Città del Sole che Sorge” dell’egiziana Miral al-Tahawy, pubblicato proprio dalle edizioni Al Ein), per finire con il romanzo che potrebbe essere più interessante per i lettori italiani, una saga familiare che attraversa la storia della Libia postcoloniale (“Concerto Quirina Eduardo” di Najwa Binshatwan).

 

I due premi sono sempre più interessanti per l’editoria europea, che negli ultimi anni sembra tradurre meno dall’inglese e più dalle altre lingue. Che non sia un’impressione sbagliata lo conferma Juergen Boos: da quasi vent’anni presidente della Buchmesse di Francoforte, dopo un lungo gemellaggio iniziale Boos continua ad essere ospite d’onore della fiera emiratina: «Con la padronanza della lingua inglese che hanno oggi i giovani europei, e con la diffusione dell’e-commerce», spiega, «chi è interessato ai libri di autori anglofoni spesso li compra in edizione originale». Un pericolo che per ora non sembra minacciare gli autori arabi, malgrado gli sforzi di associazioni come quella dell’Abu Dhabi Arabic Language Centre (il presidente è lo stesso dello Sheik Zayed Book Award): «Quando sono arrivato qui ad Abu Dhabi parlavo come a casa mia in Marocco e non mi capiva nessuno», ha raccontato uno dei migliori interpreti del posto. «Allora ho cominciato a parlare la lingua colta e mi hanno riso dietro: “Ma che fai, parli arabo classico?”. Finisce che parlo inglese: come la maggioranza dei giovani di qui, che crescono circondati da figli di immigrati e l’arabo lo masticano poco…» Sarà anche per questo che l’editoria per l’infanzia la fa da padrone nel Paese: le sono dedicati la maggioranza degli stand della Fiera di Abu Dhabi e una kermesse nell’emirato di Sharjaar, oltre a biblioteche per bambini da sogno come quella della Cultural Foundation nel centro della capitale. Perché se non insegni l’arabo ai più piccoli su libri pensati apposta per loro, rischi che questo compito venga monopolizzato dalle scuole coraniche: e la storia ci ha insegnato che può non finire bene.