La regista di “Non conosci Papicha” torna con un film pieno di sogni e di resilienza. E uno stile vincente che fa tesoro di culture vicine e lontane. Dalla newsletter de L’Espresso sulla galassia culturale araboislamica

Quando Houria, protagonista del film che porta il suo nome, balla con le cuffie, trasportata da una musica che sente solo lei, il pubblico italiano pensa a “Io ballo da sola” di Bernardo Bertolucci. Quando si immerge nel linguaggio dei segni, quello francese ci vedrà un'eco de “La famiglia Bélier”. E l’ansia prenderà gli spettatori di tutto il mondo durante la gita di gruppo delle ragazze vestite di bianco in un bosco che ricorda sinistramente quello di “Picnic a Hanging Rock”.

 

L’impressione è che la regista, Mounia Meddour, dissemini “Houria. La voce della libertà” di citazioni del cinema occidentale per sottolineare che non è solo di Algeria, o di donne arabe, che ha voluto parlare raccontando la storia di questa giovane ballerina che vede sogni e progetti distrutti da un tentativo di rapina, e che riesce a ricostruire la sua vita grazie a un gruppo di donne che hanno subito traumi anche peggiori del suo (la interpreta la bravissima Lyna Khoudri, premiata come Miglior promessa ai Premi César 2020 per “Non conosci Papicha”, il primo film di Meddour).

 

Le speranze, la violenza, il patriarcato, la voglia di fuga sono problemi universali, e universale è il linguaggio che li esprime, che sia cinema, danza o musica, classica e no: vedi i lunghi stralci sulla preparazione del balletto “Il lago dei cigni” e il sorprendente omaggio ad Al Bano e Umberto Tozzi, i campioni italiani del pop, il genere più agile nel superare pregiudizi, confini e mari come il Mediterraneo. Un film già applaudito alla Festa del Cinema di Roma e al Biografilm di Bologna, che esce nelle sale italiane mercoledì 21 (distribuzione I Wonder Pictures): ma sbrigatevi ad andare a vederlo, un film così raffinato non resisterà molto…

 

Spesso i registi di origine araba si lamentano perché nei Paesi occidentali hanno speranze di essere finanziati e distribuiti solo film che parlano dei temi che i media associano al mondo islamico: dal terrorismo alle atmosfere da “mille e una notte”. Siamo partiti da qui per un’intervista a Mounia Meddour.

 

Lei si è mai scontrata contro questo problema?
«Per niente. Io penso che il cinema nei paesi arabi risponda a un'emergenza. Urgenza da dire. Urgenza di trasmettere. Urgenza di denunciare o modificare le cose. I registi arabi quando prendono una macchina da presa spesso lo fanno per mettere il dito su ciò che non va, su ciò che deve cambiare, evolvere. Ciò si traduce in un cinema impegnato e militante ancorato a una sorta di realismo e urgenza. In Paesi come l’Algeria, facciamo un film perché l'arte diventa uno sbocco necessario. Non credo che gli autori da noi abbiano il tempo e il denaro per plasmare storie per compiacere il mondo occidentale. È una questione molto più profonda e viscerale di così. Per quanto riguarda me, dopo “Papicha”, che per me era una necessità, ho continuato a raccontare storie dello stesso genere: esperienze di donne coraggiose radicate nella realtà algerina».

 

La resilienza di Houria passa attraverso l’appoggio di una comunità femminile. Questo tipo di rapporti sono forti in tutti i Paesi del mondo, ma guardando il suo film si è rafforzata la mia impressione che ci sia una via araba alla sorellanza, che forse discende dall’idea di “umma” islamica. O mi sbaglio?
«La fraternità, la solidarietà e il suono sono elementi importanti nei miei film. Quando si vive in una società complessa dove le donne si trovano di fronte a situazioni di angoscia, fisica o psicologica, l'aiuto reciproco rimane l'unica soluzione. Le donne tra loro possono capirsi meglio e aiutarsi a vicenda. A differenza dell'Europa, il tessuto associativo è basso nei paesi arabi, quindi l'aiuto reciproco rimane l'unica via d'uscita. In “Papicha” o anche in “Houria”, è la “comunità” che viene in aiuto dei protagonisti. L’ambito collettivo è sempre più forte. È una questione di sopravvivenza».

 

In tutto il mondo è in corso un forte movimento di decolonizzazione culturale, e per motivi storici ogni Paese (Italia compresa) ha una sua strada verso la decolonizzazione dell’immaginario. L’Algeria ha un rapporto particolarmente conflittuale con la memoria coloniale, ma tagliare del tutto il legame con la Francia è impossibile. Lei che rapporto ha con il tema della decolonizzazione culturale per quanto riguarda il cinema, e in generale?
«Io vengo non da due ma da tre culture, che sono completamente diverse tra loro. Di madre russa, di padre algerino e residente in Francia, traggo da ognuna delle tre ispirazioni che mi arricchiscono. La francofonia è un patrimonio. Amo tutti gli autori della letteratura francese e il cinema d'autore francese, però sono cresciuta in Algeria. L'Algeria ha nutrito il mio immaginario per più di 20 anni. La ricchezza della lingua araba, la cultura araba, sono un patrimonio molto ricco, e anche di questo si nutre il mio lavoro. Quindi la questione della "decolonizzazione culturale" non mi tocca nel profondo. Trovo però essenziale riuscire a creare il proprio immaginario, i propri film, immagini che ci somigliano. E da questo nasce la questione del punto di vista: la necessità di raccontare storie dall'interno, per essere il più vicini possibile alla realtà, e per tenersi ben lontani dai luoghi comuni e dall’esotismo coloniale».