Una mostra a Leida approfondisce l’ammirazione per l’Antico Egitto dei musicisti black. Ma il governo la prende come una nuova provocazione sul colore della pelle dei faraoni. E blocca gli scavi del museo a Saqqara. Dalla newsletter de L’Espresso sulla galassia culturale arabo-islamica

Sembrava una cosa su cui sorridere, una querelle da liquidare facendo una variazione a una famosa canzone antirazzista degli anni Sessanta. “What color is God’s skin?” si chiedevano gli Up With People (la canzone uscì anche in italiano: “Di che colore è la pelle di Dio”, cantava il Quartetto Radar). “What color is Cleopatra’s skin?”, si chiedono oggi i media di tutto il mondo. Da una parte la serie Netflix sulla regina egizia, interpretata da un’attrice dalla pelle scura. Dall’altra il governo egiziano, che ne fa una questione di principio: gli egizi dell’epoca dei faraoni non erano neri, come non lo sono quelli di oggi, con buona pace dei cittadini di origine nubiana... Il risultato è una disputa diplomatica, una censura accademica: insomma una battaglia vera, non da ridere.

 

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La questione è nata appena si è cominciato a parlare della serie arrivata sugli schermi all’inizio di maggio. La produttrice, Jada Pinketts, e il suo team, hanno deciso di far interpretare la famosa regina da Adele James, attrice inglese di origini africane. Ne è nata una discussione mondiale che ha accompagnato il lancio della serie: tra chi sfoggiava conoscenze storiche che in realtà non risolvono la questione (per parte di padre Cleopatra era di origine macedone, è vero, ma sua madre probabilmente era egiziana), chi rispondeva criticando Elizabeth Taylor (che è certamente ancora più improbabile di Adele James nei panni di una regina che aveva sangue africano) e chi richiamava tendenze dell’industria televisiva recente: il casting di attori afroamericani ha decretato il successo di una serie come “Bridgerton”, ambientata in un immaginario Settecento inglese in cui non c’era razzismo e anche i nobili potevano essere neri. "Bridgerton" però è una fiction, mentre "Queen Cleopatra" si definisce "docudrama", cioè una ricostruzione storica con solo brevi inserti recitati da attori…

 

Gli egiziani non l’hanno presa bene. Prima c’è stata la causa di un avvocato cairota: ma eravamo ancora nel campo dell’iniziativa privata. Poi era intervenuto il Supremo Consiglio per le Antichità del ministero della cultura. Il segretario generale Mostafa Waziri ha scritto che «la rappresentazione è una falsificazione della storia egizia e un palese errore storico, soprattutto perché lo show è classificato come documentario e non come opera drammatica». È la storia e non il razzismo a giustificare la stroncatura: «L'atteggiamento di rifiuto nasce dalla volontà di difendere la storia della regina Cleopatra VII, la quale è una parte importante e autentica della storia antica dell'Egitto, e lontana da ogni razzismo etnico, nel pieno rispetto per le civiltà africane e per i nostri fratelli nel continente africano che ci riunisce tutti».

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Ora però la questione si è allargata, e ci sono finiti in mezzo gli archeologi olandesi: dopo una collaborazione andata avanti ininterrottamente da quarant’anni, gli studiosi del museo di antichità di Leida si sono visti revocare il permesso di scavare a Saqqara. Lo racconta Nigrizia, che spiega la decisione del governo egiziano come una punizione per una mostra del museo di Leida che in realtà non ha nessun riferimento a Cleopatra, né quella storica né quella di Netflix. L’esposizione si intitola “Kemet, l’Egitto tra Hip-Hop, Jazz, Soul & Funk” e si propone di mpstra che «l’influenza dell’antico Egitto e della Nubia è evidente nel lavoro di una moltitudine di musicisti di origine africana, comprese icone del jazz come Miles Davie e Sun Ra e artiste contemporanee come Beyoncé e Rihanna». Il richiamo al nero è evidente fin dal titolo, per chi lo capisce: “Kemet” significa “nero” e, spiegano i curatori della mostra, era una definizione usuale del regno dei faraoni perché richiamava il colore delle rive del Nilo. Ogni anno, dopo la stagione delle piene, queste venivano coperte dal limo, il fango scurissimo che rendeva fertili i terreni, che diventavano così la base della ricchezza del Paese.

 

Ma insomma, di che colore era la pelle degli egizi? La questione è aperta, e ne abbiamo parlato in una puntata del podcast de L’Espresso su “I misteri di Tutankhamon”. Dove ricordiamo che è stato il clamore per la scoperta della tomba del "faraone ragazzino", negli anni Venti del secolo scorso, a far nascere negli afroamericani un’identificazione orgogliosa con i sovrani egizi. E la convinzione che, essendo africani, avessero la pelle scura.

 

In realtà, non si sa con certezza. Non fa testo il colore delle mummie (scurite dalle sostanze usate per l’imbalsamazione e dal passare dei millenni), non dà risposte certe l’esame del Dna. Sicuramente c’erano egizi neri: la storia racconta di continue guerre che, con alterne fortune, contrapposero l’Egitto e la Nubia, l’attuale Sudan, i cui abitanti erano di pelle scura. Ci sono state dinastie di “Faraoni neri”, ci sono statue di sovrani, regine e dignitari che hanno lineamenti evidentemente subsahariani. Di certo non fa testo la pelle degli egiziani di oggi, che discendono in gran parte dai musulmani provenienti dalla penisola araba e dal Medio Oriente che conquistarono il Paese nel VII secolo d.C.

 

E la serie Netflix? È appesantita dalla «promozione del black power per mezzo di un'appropriazione culturale interessante e giustificabile negli intenti, ma errata e auto-sabotatrice nei fatti», scrive Movieplayer. Aspettiamo la risposta dell’Egitto: che ha annunciato un «documentario ad alto budget sulla regina Cleopatra VII» per ristabilire la verità. C'è un problema: per avere la stessa audience del precedente, il governo egiziano dovrebbe proporne la distribuzione a Netflix.