La magia quasi felliniana nascosta dentro il giovedì nero del blocco ferroviario. In cui puoi solo aggrapparti alla gentilezza delle persone

«Piangi e piangerai da solo, ridi e il mondo riderà con te». Ci penso mentre attraverso la strada affannato assieme alle altre persone. Corriamo con i trolley che si incastrano tra i binari del tram e saltelliamo tra le buche dell’asfalto cercando di non prendere una storta alla caviglia. Raggiungiamo il grande bus che sta partendo, uno di noi si sbraccia, urla, riesce a fermarlo. «Scusi, va a Prato questo?». L’autista ci guarda perplesso: «Per Prato è dalla parte opposta». Già, ma dov’è la fermata?

 

Nel mezzo di Porta al Prato, uno degli snodi del traffico di Firenze, si vedono solo auto in transito in ogni direzione, mentre una leggera pioggerella rende lucido il manto stradale. Io e gli altri cerchiamo la fermata dei bus. Siamo alcuni dei pendolari Trenitalia nel giorno 20 aprile del 2023, il giorno in cui il Paese è rimasto bloccato a causa di un incidente ferroviario nella stazione di Firenze Castello. I regionali fino a Prato sono saltati, Trenitalia ha disposto dei bus sostitutivi per la tratta di venti km.

 

Non c’è un cartello, non c’è un addetto, non c’è nessuno di Trenitalia che ci dia spiegazioni. La gente si aiuta con Google. Subito faccio squadra con un paio di ragazzi svegli e ci mettiamo a dare indicazioni ai turisti allibiti. Nel disagio e nello stress di un viaggio della speranza, ci riscopriamo tutti umani. Chi offre una sigaretta, chi ringrazia per le indicazioni. Prendo al volo l’ultima corsa della giornata per tornare a Pistoia. Novantatré fermate senza passare per l’autostrada.

 

Appena salito capisco che il bus è un portale per un altro mondo. L’utenza è quasi tutta di immigrati o minorenni, alle fermate si alternano famiglie di sudamericani che chiedono deviazioni di percorso (non concesse), ragazzini usciti dall’allenamento di calcio, un cinese con un sacchetto di plastica che scenderà in mezzo al nulla, diversi viaggiatori senza biglietto.

 

L’autista è un tipo particolare: dà risposte crudelmente ironiche, parla poco e ogni dialogo con i passeggeri è una sorta di battaglia mentale che vince poiché sa di essere il nostro salvatore. Eppure dice di non essere a conoscenza dell’incidente ferroviario («Ah, un incidente? Pensavo che siccome va di moda buttarsi sotto il treno qualcuno si fosse buttato»).

 

All’interno del bus, a differenza del treno, vige il buio, che rende il viaggio più rilassante. Usciti dal centro ci troviamo in mondi lontanissimi dal mio eppure adiacenti. Seano, Poggio a Caiano, Barba, Valenzatico. Alcuni di questi posti non li avevo mai sentiti. Tra noi survivor di Trenitalia si è sviluppata una certa intesa. Sarà la luna, la notte, ma sono meno irritato per il disagio della giornata, rincuorato dalle persone.

 

Arrivati alla stazione me ne vado pieno di poesia e cammino verso la macchina. Più rimango solo e più è come se la magia felliniana del viaggio, senza i miei compagni, si dissolvesse. Arrivo a piedi nel grande sottopassaggio per le auto e noto una scritta che al momento della mia partenza non c’era. Un cubitale, lapidario: “Prato Merda”, scritto con lo spray. È come se qualcosa volesse rovinarmi la magia, la fiducia nel genere umano che ho appena riguadagnato. Tiro dritto e cerco di non pensarci, a volte bisogna fare così.