Il Libano di sciiti, sunniti e maroniti. Le due chiese ortodosse ucraine. Il fondamentalismo cristiano statunitense. E le crisi d’identità europee. Dal Festival Biblico, un approfondimento sul legame perverso tra fede e violenza. Dalla newsletter de L’Espresso sulla galassia culturale arabo-islamica

Dietro ogni guerra c’è una guerra di religione: sembra una frase da libro di storia, invece riguarda anche la cronaca più recente. Alle radici dell’invasione russa dell’Ucraina come della crociata della destra americana contro l’aborto, nel cuore della crisi libanese ma anche dell’opposizione delle destre europee a diritti civili e migrazioni c’è un richiamo diretto o indiretto al “Dio con noi”. E il paradosso più grande (e la pecca più imperdonabile agli occhi di non credenti e scettici) è che al cuore di ogni fede c’è invece un messaggio di pace e tolleranza: e allora come mai non solo nella storia del passato ma anche nella realtà quotidiana ogni religione è in qualche modo legata a guerre e violenze, intolleranza e prevaricazioni?

 

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A questo tema è dedicato un podcast approfondito ma scorrevole all’ascolto: “Tensioni”, prodotto dal Festival Biblico con la collaborazione scientifica della rivista Jesus, presentato da Roberto Zichittella e scritto da Giovanni Ferrò e Paolo Rappellino. Cinque puntate che accompagnano l’ascoltatore dall’Ucraina agli Usa al Libano per tornare alla fine in Europa, tra l’Italia del “Dio Patria famiglia” (sottotitolo: “La religione nella politica italiana all’epoca dei sovranismi”) e “un continente in cerca di una direzione”, che a ottant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale sembra essersi smarrito tra crisi economica e rigurgiti identitari. Un continente che spinge i cristiani a dividersi su tutto ma a unirsi nell’indossare l’elmetto in vista di uno “scontro tra civiltà” contro l’islam, la religione più diffusa tra i migranti più poveri e quindi più meritevoli di carità cristiana.

La divisione tra i cristiani è evidente fin dalle prime parole del podcast, che parte dalla Pasqua ortodossa. Il 16 aprile scorso il Monastero delle Grotte, il luogo più santo dell’Ucraina, è rimasto sbarrato perché Zelensky ha espulso i preti, legati al patriarcato di Mosca, dal luogo in cui  abitavano da sempre: perché “stanno dalla parte del nemico”, secondo gli ucraini, che hanno messo agli arresti domiciliari il metropolita. La guerra tra due popoli fratelli diventati all’improvviso acerrimi nemici ha radici anche religiose e spirituali: gli ortodossi ucraini sono divisi tra due chiese che hanno lo stesso credo ma indossano abiti diversi. E che si dividono il merito di aver fermato l’invasione dei tartari, facendo dell’Ucraina, dopo la caduta di Costantinopoli in mani islamiche, l’ultimo baluardo cristiano d’Oriente di fronte all’islamizzazione dell’Europa. Senza dimenticare le radici ebraiche di tante città ucraine, a partire da Odessa, e la grande quantità di cristiani evangelici, che prima della caduta del comunismo le avevano guadagnato il titolo di «Bible Belt dell’Unione Sovietica».

Dall’Ucraina si passa alla vera “Bible Belt”, quella degli Usa, per affrontare la radicalizzazione delle fazioni politiche legate alle posizioni religiosi cattoliche e soprattutto protestanti. Al “Fondamentalismo cristiano negli Stati (dis)Uniti” è dedicato un focus che accompagna l’ascoltatore dentro una metamorfosi rapida quanto imprevista: un capovolgimento che ha portato una democrazia liberale che aveva fatto della laicità uno dei pilastri della propria identità a diventare terreno di scontro tra fazioni legate dalla paura di ogni progresso e di ogni differenza.Tra le voci del podcast c’è Edmondo Lupieri, teologo di Chicago e autore di “Cronache dal Trumpistan. Dialogo di un teologo italiano in America”.

A raccontare le radici anche religiose della crisi del “Libano, un giardino sfiorito” sono invece Lorenzo Trombetta, collaboratore della rivista Limes e corrispondente dell’Ansa da Beirut, e Laura Silvia Battaglia, giornalista esperta dell’area mediorientale che collabora anche con le pagine de L’Espresso. Alla radice della lunga crisi economica e politica che ha trasformato la ex “Svizzera del Medio Oriente” in un Paese con il 30 per cento di disoccupati e l’85 per cento di poveri c’è anche la convivenza complessa e paralizzante tra sunniti, sciiti e cristiani maroniti. Un dramma quotidiano che interessa il mondo intero: perché il Paese che è stato la culla di una delle più antiche e innovative civiltà del mondo, quella fenicia, malgrado gli enormi problemi rimane l’unica scommessa di una democrazia mediorientale aperta a religioni e popoli diversi.