Il lavoro è sempre precario, retribuito male, sfruttato. Bisognerebbe protestare, occupare le piazze. Il problema è che non c’è più un padrone visibile contro cui combattere

Avrete queste righe tra le mani domenica 7 maggio, ma mentre scrivo è lunedì e in tv c’è il concertone del Primo Maggio. È da tutto il weekend che sento parlare di lavoro e sono sicuro che la settimana prossima l’attenzione mediatica sarà sfumata. Finita la sfilata della politica che cerca di rimediare con promesse e giri di parole, finito il clamore e il tono retorico in tv sul tema del lavoro, il rider vi continuerà a portare il cibo a casa per due spiccioli, il precario sarà ancora precario e così via. Come l’anno scorso, come l’anno prima e, a meno di sconvolgimenti planetari inspiegabili, anche come l’anno che verrà. Poi per carità, tutto è opinione, tutto è numeri, ma che miglioramento è l’aumento del lavoro precario?

 

Il concerto del Primo Maggio mi fa sempre pensare. Non capisco cosa abbia la gente da festeggiare. Secondo l’Ocse, l’Italia è l’unico Paese europeo in cui, dal 1990 al 2020, il salario medio annuale reale è diminuito (-2,9 per cento) a fronte di aumenti di oltre il 30 per cento in Francia e Germania. La gente non dovrebbe ballare, dovrebbe occupare la piazza in silenzio in segno di protesta. Quei telefoni non dovrebbero servire per selfie e video inutili, ma per documentare un momento significativo. Invece niente.

 

Se penso a quello che significa la festa dei lavoratori mi vengono in mente operai dell’Ottocento e del Novecento che si fanno caricare dalla polizia e dall’esercito, sommosse, storie di uomini e donne che hanno messo a repentaglio la loro vita per difendere un principio. La vita delle persone è sempre uguale, siamo noi che per la prima volta dopo secoli siamo cambiati. Siamo al culmine dello sviluppo della civiltà e lavoriamo ancora per due spicci con diseguaglianze sociali enormi. Ormai siamo così abituati che nessuno, almeno in Italia, protesta davvero. Perché oggi è impossibile una rivoluzione?

 

Mi faccio la domanda e magicamente trovo la risposta in un libro, uno di quegli strani oggetti rettangolari pieni di parole che una volta erano importantissimi per la nostra formazione e che oggi sono in crisi, sommersi dalle troppe uscite e naufragati nelle poche vendite. Lo pubblica Nottetempo, una casa editrice fantastica, e il suo autore è un filosofo coreano che forse è il più lucido pensatore sulla piazza al momento.

 

Byung-Chul Han scrive: «Il potere stabilizzante della società disciplinare e di quella industriale era repressivo. Gli operai delle fabbriche venivano sfruttati senza pietà dai padroni e lo sfruttamento brutale condusse a proteste e resistenze. Allora sì che era possibile una rivoluzione capace di rovesciare i rapporti di produzione vigenti. In quel sistema repressivo erano visibili sia l’oppressione sia gli oppressori. Esisteva una controparte concreta, un avversario visibile a cui opporre resistenza.

 

Il sistema di dominio neoliberista è strutturato in maniera profondamente diversa. Il potere stabilizzante non è più repressivo, bensì seduttivo, e non è più visibile come il regime disciplinare (...) Oggi ciascuno è un operaio che si sfrutta da solo, un dipendente di sé stesso. Ciascuno è al contempo servo e padrone, per cui la lotta di classe si è trasformata in lotta interiore. Chi oggi fallisce si dà la colpa e si vergogna: individuiamo il problema in noi stessi piuttosto che nella società» (Byung-Chul Han, “Perché oggi è impossibile una rivoluzione”, Nottetempo).