Nel 1965 Lisetta Carmi capitava per caso in una casa a Genova e, in anni in cui queste tematiche erano considerate tabù, iniziava a scattare le sue immagini potenti. Che ora rivivono in un libro e in una mostra

«Via del Campo/ c'è una puttana/Gli occhi grandi color di foglia/Se di amarla ti vien la voglia/Basta prenderla per la mano», cantava Fabrizio De André nella canzone dedicata alla via simbolo della sua città. Oggi via del Campo, a Genova, è un passaggio obbligato per tutti coloro che vanno al Porto Antico, una strada lastricata che incrocia i caruggi del centro storico, ma negli anni Sessanta era un luogo malfamato, nonché punto d’incontro per artisti e appassionati di musica, vista la presenza del negozio di strumenti, spartiti e dischi di Gianni Tassio, icona della scuola genovese della canzone d’autore.

 

È proprio in quella via nell’ex ghetto ebraico che Lisetta Carmi, una delle personalità più interessanti del panorama fotografico italiano, scomparsa di recente a 98 anni, fu portata da un amico a una festa di Capodanno, mentre realizzava un reportage sulle condizioni di lavoro a Genova Porto. Era il 1965 e in quella casa viveva un gruppo di travestiti, ma lei non lo sapeva. Tra loro fu amore a prima vista. Iniziò a studiarli, a osservare e poi fotografare “per capire”, come disse più volte. Ci entrò così in confidenza che decise di rivederli ogni giorno, per sei anni, scattandogli ogni volta delle foto.

 

[[ge:rep-locali:espresso:382872537]]

Prima di lei, solo il fotografo svedese Christer Strömholm aveva fatto qualcosa di simile con i travestiti parigini, senza dimenticare lo studio fatto da Franco Pinna sulle prostitute del quartiere romano Mandrione con l’antropologo Franco Cagnetta. Ma Carmi andò oltre, entrando nelle loro vite in punta di piedi, conquistando la loro fiducia. «Li ho subito sentiti come esseri umani che vivono e soffrono tutte le contraddizioni della nostra società come minoranza ricercata da una parte e respinta dall’altra», scrisse nel libro “I travestiti” dove alcune di quelle foto furono raccolte dalla casa editrice Essedi di Roma, un libro che fece così scandalo, che molte librerie rifiutarono di esporlo. Allora, era il 1972, veniva venduto quasi clandestinamente, mentre oggi è diventato un pezzo di storia della fotografia italiana, tanto che la casa editrice Contrasto ha deciso di ripubblicarlo a distanza di cinquant’anni.

 

In molti avevano chiesto alla Carmi, quando era ancora in vita, di ripubblicarlo, ma lei aveva sempre rifiutato. Quelle foto ora hanno una nuova veste e sono delle “Fotografie a colori” non soltanto nel titolo del libro, immagini uniche che mostrano i suoi soggetti sotto una nuova luce. Se quelle originali in bianco e nero mettevano in risalto le loro esistenze notturne alludendo al loro senso di marginalità, quelle a colori, alcune delle quali sono esposte nella grande mostra monografica alle Gallerie d’Italia di Torino intitolata “Lisetta Carmi. Suonare Forte”, sembrano meno malinconiche e più gioiose. Immagini garbate, libere da pregiudizi morali e prive di qualsiasi forma di strumentalizzazione, capaci di catturare la segretezza in cui i travestiti erano spesso costretti a vivere. Di lei si fidavano e ridevano insieme, chiedendole addirittura aiuto con i clienti stranieri, affinché capissero chi avevano avanti.

 

[[ge:rep-locali:espresso:382872538]]

«Non è un caso se il mio interesse e la mia partecipazione ai loro problemi ha creato fra me e loro una fiducia, un affetto e una comprensione che mi hanno permesso di fare questo lavoro con un rapporto che andava al di là di un normale rapporto fra fotografo e fotografati», si legge nella nuova e preziosa edizione a cura di Giovanni Battista Martini con testi di Juliet Jacques, Vittorio Lingiardi e Paola Rosina. «Io stessa, aggiunge, ero assillata, forse a livello inconscio, da problemi di identificazione maschile o femminile. Non si trattava tanto di accettazione di uno “stato” quanto di rifiuto di un “ruolo”. E i travestiti (o meglio il mio rapporto coi travestiti) mi hanno aiutato ad accettarmi per quello che sono: una persona che vive senza ruolo». Osservandoli, capì «che tutto ciò che è maschile può essere anche femminile e viceversa», come il fatto che «non esistono comportamenti obbligati, se non in una tradizione autoritaria che ci viene imposta fin dall’infanzia».

 

«Ma chi sono realmente i travestiti?», si chiede tra quelle pagine Carmi, e per quale motivo cercano così disperatamente la condizione femminile? «I travestiti si mascherano, è vero, ma lo fanno per necessità e hanno il coraggio di fare quello che fanno e di affrontare una realtà spesso drammatica e violenta. Per molti di loro non esiste una alternativa di lavoro: come uomini hanno un aspetto troppo femminile, come donne hanno l’impedimento dello stato anagrafico maschile. Sopportano stati di solitudine incredibile proprio perché da una parte la società li ricerca e dall’altra li isola, li obbliga praticamente a vivere in ghetti, ha paura di riconoscersi in loro. Li usa, li paga, li giudica: ignorando volutamente che sono esseri umani».

 

[[ge:rep-locali:espresso:382872536]]

A quei tempi, poi, non era né scontato né facile essere un travestito e una come Lisetta Carmi, che proveniva da una famiglia ebrea benestante e colta, decise che di quelle esistenze, di quei volti e di quei corpi ne avrebbe fatto tesoro rappresentandoli al meglio. Una come lei, costretta a lasciare la scuola a quattordici anni, nel 1938, per le leggi razziali e le persecuzioni fasciste, sapeva molto bene cosa volesse dire essere un’emarginata. «Gli ebrei conoscono la sofferenza e credo di dovere al fatto di essere ebrea la comprensione che in tutta la vita ho avuto per chi soffre». Un’apertura verso gli altri, dunque, che per lei è stata una necessità ed è stata proprio la necessità di aprirsi agli altri e di comprenderli che la spinse verso la fotografia. Prima era stata una pianista talentuosa e apprezzata, ma nel momento in cui capì che la musica la stava allontanando dal mondo, decise di abbandonarla senza alcun ripensamento. «Se le mie mani sono più importanti dell’umanità, smetto di suonare», e fu così che scese in piazza. Cinque anni prima di quelle foto, andò in Puglia con l’etnomusicologo Leo Levi a registrare i canti degli ebrei portandosi una macchina fotografica e nove rullini. Non aveva mai fotografato, ma scattò d’istinto, scoprendo di avere un altro talento, oltre alla musica, desiderosa di comprendere e raccontare. Lo fece, ad esempio, documentando il parto in bianco e nero, i lavori fotografici dedicati al mondo del lavoro in Italia e all’estero e i ritratti di Ezra Pound con cui vinse il premio fotografico Niépce. «Ricordo ancora quel giorno, ero andata a trovarlo, suonai il campanello, lui aprì e io non persi tempo: scattai. Feci venti scatti, ne scelsi undici. Fra questi quella foto».