Le parate dell’orgoglio continuano ma si registrano decine di aggressioni denunciate agli sportelli antiviolenza dopo ogni manifestazione. E senza molto seguito anche alle forze dell’ordine. Le associazioni Lgbt: “C’è un clima politico di impunità”

Una macchia sulla strada, una piccola macchia scura potrebbe anche essere olio ma invece no, è sangue. Accanto un pezzo di volantino arcobaleno sporco: di sangue. Il primo luglio, dopo il Pride e le botte, all’uscita del McDonald’s di piazza VIII agosto a Bologna è quello che resta. «Circa 15-20 ragazzini si sono avvicinati. Eravamo circondati, e ci veniva posta la domanda: chi è frocio qui in mezzo? Ho alzato la mano. Da lì in poi, la confusione. Il branco di ragazzi iniziava a inveire fisicamente contro tutti noi. Ci lanciavano pietre, tiravano calci, graffi, borsate in faccia, eravamo soltanto sei e non eravamo in grado di reagire. Poi uno di noi ha iniziato a sanguinare, loro sono scappati. Siamo tornati a casa, terrorizzati». Lo si legge in una mail indirizzata alla consigliera comunale Porpora Marcasciano e alla vicesindaca Emily Clancy.

Il Pride di Bologna, nella città arcobaleno per eccellenza, è stato caratterizzato dai pestaggi. Sono una decina gli episodi denunciati agli sportelli antiviolenza, al Comune e alle forze dell’ordine. Ma potrebbero aumentare, fanno sapere, tutti tra la zona universitaria e il quartiere Navile. Dopo le denunce la vicesindaca e la consigliera hanno scelto di incontrare le vittime insieme alle realtà Lgbt del territorio e istituire un’assemblea cittadina.

«La dinamica che ci ha inquietato è che le aggressioni sono tutte simili tra di loro: sono minorenni, la classica baby gang», racconta a L’Espresso la vicesindaca Clancy: «C’è sicuramente un lavoro di educazione alle differenze da fare. Ma parliamo di persone picchiate in pieno centro storico, subito dopo un Pride, a Bologna, non era mai successo. C’è un clima politico che legittima questo tipo di aggressioni e attira l’attenzione su persone che non rispondono a un’eteronormatività. Tutte le persone che ho incontrato mi hanno detto: è il mese del Pride forse ero più riconoscibile. Lo stampo delle aggressioni è fortemente omotransfobico. Ma il punto è un altro: chi va a denunciare si trova spesso davanti a un muro, è come se le forze dell’ordine non riconoscessero la matrice: chiedono ti hanno anche derubato? Ecco il fenomeno dell’under-reporting».

Il fenomeno, come lo definisce la vicesindaca, lo ha vissuto personalmente un’altra vittima, Vito Buccio, 24 anni, accerchiato, ricoperto da cori «per il modo in cui camminavo» e poi assaltato. «Mentre cercavo di recuperare il telefono, uno di loro ha fatto per aiutarmi. Mi ha detto: “Ti chiedo scusa per i miei amici, sono degli stupidi”. Ci siamo chinati insieme, ma quando ci siamo rialzati mi ha tirato un ceffone in faccia. È stato il momento più umiliante, ho pianto e gridato finché non se ne sono andati. Poi sono andato a denunciare. Il 4 luglio un mio amico ha subito un’aggressione sempre di stampo omofobo, ma più grave, con calci e pugni. Anche lui ha denunciato. Quando mi ha descritto gli aggressori ho avuto qualche ricordo e ho pensato che fosse utile per un eventuale identikit». Ma gli agenti lo hanno sconsigliato: «Hanno detto che un riconoscimento non porterebbe a grandi ripercussioni legali».

 

In Italia l’Onda Pride continuerà per la penisola fino al 16 settembre. Una presa di visibilità che contemporaneamente porta a un aumento delle vittime del pregiudizio. A far da complice l’assenza di censura sociale che aggrediti e associazioni Lgbt denunciano: «Dopo l’aggressione – spiega Vito – una coppia di ragazzi mi ha detto: può capitare. Volevano rassicurarmi, mi hanno demoralizzato. In che senso può capitare?».

Non è andata meglio a Luca e Nicolas. Siamo a Pavia che soltanto nell’ultimo anno ha registrato presso il “Coming-Aut-Pavia Lgbt Community Center” più di 300 richieste di aiuto. È stato un attimo, ha raccontato Luca, documentando tutto sui propri social. A pochi giorni dallo svolgimento del Pavia Pride, il 7 Giugno alle 17.30 nella città lombarda a Sud di Milano, la coppia esce dalla stazione. Si tengono per mano, vengono raggiunti da un signore italiano. «Gay di merda vuoi vedere come ti ammazzo». Urla, li insegue. I due scappano. Il colpo d’occhio è sull’apatia intorno. «Un episodio doloroso», dice Davide Podavini del Coming Aut Pavia: «C’era molta gente e nessuno ha provato a intervenire». A Palermo qualcuno interviene invece, in difesa degli aggressori. Nel giorno del Pride un ragazzo di 28 anni viene aggredito insieme a un amico in un locale in via Dante: «Eravamo tutti un po’ più estrosi», racconta. C’è una donna che insulta, dice fate schifo, un uomo che picchia. Il gestore chiede ai ragazzi di andarsene ma i due chiamano i carabinieri e un’ambulanza. Denunciano, ma serve a poco: gli aggressori si sono dileguati, impossibile il riconoscimento. Alla fine della giornata dell’Abruzzo Pride, a Chieti, sono le famiglie arcobaleno nel mirino. Adesivi strappati, sputi sulla folla, bambini impauriti. «Un gruppo di matrice chiaramente fascista ha attaccato le famiglie presenti all’evento, insieme alle loro bambine e ai loro bambini», ha denunciato la presidente di Famiglie Arcobaleno Alessia Crocini. «A fine giornata sono dovute intervenire le forze dell’ordine che hanno scortato queste famiglie fino alle loro automobili». Violenti infiltrati tra la folla per minacciare e impaurire. «Non mi era mai successo in decenni di Pride», spiega Crocini. «Di fondo c’è che il discorso omotransfobico con questo governo, si è messo il vestito buono e parla da molte sedi istituzionali», spiega Gabriele Piazzoni, segretario generale di Arcigay: «La discriminazione, lo abbiamo ascoltato più volte, viene raccontata come una pratica giusta, necessaria: è così che le maggioranze si auto legittimano e scrivono la loro storia di parte. Ma un altro fattore da analizzare è che i Pride, cioè gli oltre 50 cortei che quest’anno attraversano il Paese, sono l’unica mobilitazione di piazza sopravvissuta a quest’era di marginalizzazione e criminalizzazione del dissenso. Chi scende in piazza dà fastidio, a chi viene contestato innanzitutto ma anche a chi in generale vive con insofferenza il conflitto e lavora per anestetizzarlo. Giugno, cioè il mese del Pride, anche nel nostro paese sta diventando un catalizzatore di contenuti diversissimi, prodotti da realtà molto diverse tra loro, che attraversano tutti i luoghi, dalla comunicazione dei massa, alla politica, al commercio, alle istituzioni».


Il Pride di anno in anno, sta diventando un rituale collettivo e nella collettivizzazione chi prima era chiamato semplicemente a “tollerare”, oggi si sente circondato e respinge la complicità nella quale si sente immerso,  spiega Piazzoni: «L’omofobo non vuole aderire al Pride delle persone delle persone lgbtqi+ né tantomeno ai Pride di tutti gli altri che in questo mese espongono una bandiera arcobaleno o comunque mostrano un sostegno. Infine, c’è la nostra visibilità, quella di chi alza la testa che non accetta di essere marginalizzato, che continua a lottare caparbiamente e quotidianamente, in maniera molto visibile. E forse qui c’è l’unica buona notizia: la nostra caparbietà fa innervosire gli odiatori, li preoccupa. Perciò non possiamo che andare avanti così».